domenica 23 giugno 2013

Elena e Achille






Sovra un’alta torre stava una donna. Come la luna pareva assistere alla sorte degli uomini; quanto infatti le potenze intermedie fra la terra e il cielo esercitano influssi fausti o nefasti, Giove benefici, Venere voluttuosi, agili Mercurio, nocivi Saturno, ardenti Marte, tanto può determinare il destino umano una sola donna.
Era accerchiata da dignitari e da ancelle, da guerrieri armati di lancia e scudo, da menestrelli, da buffoni di corte, da aedi, da retori, da sofisti dalla barba bianca, da pontefici mitrati, da giocolieri, da artisti, da pittori, da poeti.
Ella fulgeva d’un alto diadema aureo sovrastato da un globo fiammeggiante di rubini, la capigliatura fluente le procombeva sugli omeri in avvolgimenti flavi quale onda indorata, ed ella recava nella destra il fiore del loto. Un camice di lino levissimo lasciava libere di modellarsi negli atti decorosi le carni più aulenti del carneo petalo della rosa, e un manto tramato di borchie argentee e intessuto di tutte le varietà lucenti dell’arcobaleno le cadeva in molli pieghe dalle spalle immortali.
Ella era volta alla pianura, ove le file achee ormai affrontavano i Troiani in una guerra decennale, poi che era stato nunziato l’imminente duello tra i due mariti, Menelao Lacedemone, valente in battaglia, e Paride bellissimo.
Da un lato Menelao, torvo, spiava le mosse del rivale. La corazza nera era ancora impolverata, né aveva messo l’elmo, ché non erano ultimati i preliminari del truce scontro, e attendeva sdegnoso, socchiudendo gli occhi cerulei e aggrinzando i sopraccigli folti. Il volto biancheggiava, appena sporcato d’una debole lanugine, i capelli erano corti e radi.
Dall’altro lato Paride, dalla fluida chioma castanea che in morbide anella s’univa all’accennata peluria fra le scapole sulla pelle polita, destava ammirazione fra lo schieramento nemico per la straordinaria grazia del volto, dove sereni gli occhi bruni e placidi con noncuranza posavano sulle armi ostili. Aveva forse egli furtivamente insinuato nel petto impudico della regina spartana il fuoco della sua bramosia, in lei che ad altro non atteggiava la posa regale, altezzosa e lasciva, desiderosa d’essere oggetto di desiderio.
Ed ella, per certo, ora poteva constatare quanto valesse la sua bellezza, ché popoli interi si dissanguavano e si estinguevano nelle battaglie, e tutta l’Asia era desolata e messa a ferro e fuoco dall’ingiusta rabbia del marito e di una stirpe, che, considerando solo l’offesa, non pensava alla complicità e al compiaciuto assenso dell’ostaggio, cui s’immolavano tante vite.   
Ma a lei, forse, quei sacrifici nella pianura d’Ilio erano doverosi tributi. Ad un fascino immortale si svenava la mortale moltitudine umana, alla quale gli dei non avevano concesso alcun divino incantesimo, che irraggiasse nei sensi il brivido della perfezione, laddove questa fosse inafferrabile, poi che nel suo viso si smarrivano i volti degli uomini quasi per un’insostenibile ebbrezza o una letizia senza concetto.
Ed ella invero avrebbe potuto avere per amanti anche Ulisse o Diomede, o lo stesso Tersite, o il più umile stalliere, e avrebbe potuto darsi ad entrambi gli eserciti, quale premio inappagabile, poi che non essendole bastato un regno non si sarebbe contentata della terra intera, tanta e sì profonda era l’inquietudine che la costringeva al tradimento. Ma gli uomini, come avrebbe potuto o dovuto accontentarsi degli uomini ?
Era l’amore d’un uomo quale il sorriso dell’alba sul mare ancora nel sonno o l’implacato furore dell’oceano nel cielo invaso dalla notte ?
Era l’amore mortale come l’accecante trionfo del sole nel divorante meriggio o quale il silenzio lunare sui dirupi erosi dalle piogge e sulle macchie nere delle selve ? Aveva tale amore la violenza degli uragani e l’aridità del deserto ?
Per questo aveva abbandonato Menelao, così puntiglioso e stoltamente pieno d’orgoglio, e avrebbe in seguito lasciato anche Paride, quel ragazzo vanesio e viziato. Ma non le sarebbe valso il valore e la potenza di Agamennone, né la prodezza d’Aiace, né la fedeltà di Patroclo, né la saggezza di Nestore.
Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri. I suoi occhi lucevano sopra le stragi dei combattenti, sopra i corpi splendidi di gioventù che erano sacrificati, innanzi a lei , divinità impassibile e indifferente.
Una tristezza l’opprimeva, un tedio senza scampo, un’ansia che la trascinava tremante fino alla torre più alta, donde il suo viso, impallidito dalla luna, interrogava i roghi della pianura e il cupo mare sonoro.
Ed ora ella assisteva alla farsa del duello fra i due mariti, a lei più estranei di uno Scita selvaggio e d’un oscuro indigeno di Liguria.
E l’iride degli occhi suoi brillava d’una strana luce, ed ella appariva immota e perduta nel tempo e nello spazio.
Lontano, verso l’accampamento degli Achei, scorse la biga splendente del fiero Achille che spronava i destrieri veloci come il vento, Xanto e Balìo, figli di Podarghe, uno notturno e l’altro rosso come fuoco. Essi correvano annitrenti, scalpitanti scrollando la folta giuba, quali spiriti o dei trasformati, al comando del figlio di Tetide.
Ed Elena lo vide, splendido di gloria, la chioma luminosa nell’impetuoso soffiare dell’ansimo marino, il corpo terribile nelle armi di Efesto e il volto che anche da lontano intimoriva maestoso. E le pareva che ascendesse, nella corsa, al cielo, un sole sopra le nubi, e il suo volto fosse quello d’un dio.    

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