Sovra un’alta torre stava una
donna. Come la luna pareva assistere alla sorte degli uomini; quanto infatti le
potenze intermedie fra la terra e il cielo esercitano influssi fausti o nefasti,
Giove benefici, Venere voluttuosi, agili Mercurio, nocivi Saturno, ardenti
Marte, tanto può determinare il destino umano una sola donna.
Era accerchiata da dignitari e da
ancelle, da guerrieri armati di lancia e scudo, da menestrelli, da buffoni di corte,
da aedi, da retori, da sofisti dalla barba bianca, da pontefici mitrati, da
giocolieri, da artisti, da pittori, da poeti.
Ella fulgeva d’un alto diadema
aureo sovrastato da un globo fiammeggiante di rubini, la capigliatura fluente
le procombeva sugli omeri in avvolgimenti flavi quale onda indorata, ed ella
recava nella destra il fiore del loto. Un camice di lino levissimo lasciava
libere di modellarsi negli atti decorosi le carni più aulenti del carneo petalo
della rosa, e un manto tramato di borchie argentee e intessuto di tutte le
varietà lucenti dell’arcobaleno le cadeva in molli pieghe dalle spalle
immortali.
Ella era volta alla pianura, ove
le file achee ormai affrontavano i Troiani in una guerra decennale, poi che era
stato nunziato l’imminente duello tra i due mariti, Menelao Lacedemone, valente
in battaglia, e Paride bellissimo.
Da un lato Menelao, torvo, spiava
le mosse del rivale. La corazza nera era ancora impolverata, né aveva messo
l’elmo, ché non erano ultimati i preliminari del truce scontro, e attendeva
sdegnoso, socchiudendo gli occhi cerulei e aggrinzando i sopraccigli folti. Il
volto biancheggiava, appena sporcato d’una debole lanugine, i capelli erano
corti e radi.
Dall’altro lato Paride, dalla
fluida chioma castanea che in morbide anella s’univa all’accennata peluria fra
le scapole sulla pelle polita, destava ammirazione fra lo schieramento nemico
per la straordinaria grazia del volto, dove sereni gli occhi bruni e placidi
con noncuranza posavano sulle armi ostili. Aveva forse egli furtivamente
insinuato nel petto impudico della regina spartana il fuoco della sua bramosia,
in lei che ad altro non atteggiava la posa regale, altezzosa e lasciva,
desiderosa d’essere oggetto di desiderio.
Ed ella, per certo, ora poteva
constatare quanto valesse la sua bellezza, ché popoli interi si dissanguavano e
si estinguevano nelle battaglie, e tutta l’Asia era desolata e messa a ferro e
fuoco dall’ingiusta rabbia del marito e di una stirpe, che, considerando solo
l’offesa, non pensava alla complicità e al compiaciuto assenso dell’ostaggio,
cui s’immolavano tante vite.
Ma a lei, forse, quei sacrifici
nella pianura d’Ilio erano doverosi tributi. Ad un fascino immortale si svenava
la mortale moltitudine umana, alla quale gli dei non avevano concesso alcun
divino incantesimo, che irraggiasse nei sensi il brivido della perfezione,
laddove questa fosse inafferrabile, poi che nel suo viso si smarrivano i volti
degli uomini quasi per un’insostenibile ebbrezza o una letizia senza concetto.
Ed ella invero avrebbe potuto
avere per amanti anche Ulisse o Diomede, o lo stesso Tersite, o il più umile
stalliere, e avrebbe potuto darsi ad entrambi gli eserciti, quale premio
inappagabile, poi che non essendole bastato un regno non si sarebbe contentata
della terra intera, tanta e sì profonda era l’inquietudine che la costringeva
al tradimento. Ma gli uomini, come avrebbe potuto o dovuto accontentarsi degli
uomini ?
Era l’amore d’un uomo quale il
sorriso dell’alba sul mare ancora nel sonno o l’implacato furore dell’oceano
nel cielo invaso dalla notte ?
Era l’amore mortale come
l’accecante trionfo del sole nel divorante meriggio o quale il silenzio lunare
sui dirupi erosi dalle piogge e sulle macchie nere delle selve ? Aveva tale
amore la violenza degli uragani e l’aridità del deserto ?
Per questo aveva abbandonato
Menelao, così puntiglioso e stoltamente pieno d’orgoglio, e avrebbe in seguito
lasciato anche Paride, quel ragazzo vanesio e viziato. Ma non le sarebbe valso
il valore e la potenza di Agamennone, né la prodezza d’Aiace, né la fedeltà di
Patroclo, né la saggezza di Nestore.
Le sue pupille miravano al di là
degli spazi terrestri. I suoi occhi lucevano sopra le stragi dei combattenti,
sopra i corpi splendidi di gioventù che erano sacrificati, innanzi a lei ,
divinità impassibile e indifferente.
Una tristezza l’opprimeva, un
tedio senza scampo, un’ansia che la trascinava tremante fino alla torre più
alta, donde il suo viso, impallidito dalla luna, interrogava i roghi della
pianura e il cupo mare sonoro.
Ed ora ella assisteva alla farsa
del duello fra i due mariti, a lei più estranei di uno Scita selvaggio e d’un
oscuro indigeno di Liguria.
E l’iride degli occhi suoi
brillava d’una strana luce, ed ella appariva immota e perduta nel tempo e nello
spazio.
Lontano, verso l’accampamento
degli Achei, scorse la biga splendente del fiero Achille che spronava i
destrieri veloci come il vento, Xanto e Balìo, figli di Podarghe, uno notturno
e l’altro rosso come fuoco. Essi correvano annitrenti, scalpitanti scrollando
la folta giuba, quali spiriti o dei trasformati, al comando del figlio di
Tetide.
Ed Elena lo vide, splendido di
gloria, la chioma luminosa nell’impetuoso soffiare dell’ansimo marino, il corpo
terribile nelle armi di Efesto e il volto che anche da lontano intimoriva maestoso.
E le pareva che ascendesse, nella corsa, al cielo, un sole sopra le nubi, e il
suo volto fosse quello d’un dio.
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