sabato 1 giugno 2013

La città







Il  giorno dopo si recò nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto i colonnati di palme.
Quando si era svegliato, il sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più solo.
Un corteo di luminose immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di margherite.
Ora il sole lo accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino, con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti, assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti frettolosi.
La città nel chiasso e nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno dovevano essere spazzati, poi migliaia di persone si agitavano correndo di qua e di là.
La via che dalla piazza centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo, per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.

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