All’alba gli stallieri
arrivarono con le cavalcature sellate. A Mauro fu affidato un cavallo
bianco, di linee eleganti e dalla criniera fluente, Misandra montò
un poderoso stallone nero, nervoso, dagli occhi ardenti.
S’avviarono al trotto
verso la piana, che s’estendeva tra la foresta e il fiume diretto
al mare.
Mauro, appartenendo a una
famiglia onorata ma povera, non aveva mai avuto un cavallo suo.
Apprese da Misandra che quello consegnatogli era il destriero del
conte Oberto. Con un sentimento di soddisfazione mista ad invidia,
considerò con uno sguardo lo stupendo esemplare ch’era sotto di
lui. “ Fortunato il conte ! “ pensò, rialzando il volto in
direzione di Misandra. Ella gli volse una rapida occhiata, quasi
avesse compreso.
Indossava una veste
succinta, da cavallerizza. Contrariamente all’uso, non portava la
gonna, ma calzoni attillati coperti da stivaletti leggeri, lunghi
sino al ginocchio. Un corpetto di velluto rosso e un cappellino
piumato costituivano il resto dell’abbigliamento.
Cavalcava alla maniera
degli uomini, e pareva un bellissimo fanciullo che partisse
all’avventura o per la caccia.
E quando il sole illuminò
la selva e fra i tronchi verzicanti e muscosi dilagava un torrente di
luce, Misandra lanciò al galoppo il suo cavallo, che nitrì
selvaggiamente, invaso dalla foga improvvisa.
Allora anche Mauro si
gettò all’inseguimento, ma il suo destriero riusciva a stento a
inserirsi nella scia polverosa del superbo animale, che pareva dotato
d'un impeto sovrannaturale, demoniaco, quasi che la volontà di
Misandra riuscisse a fargli compiere prodigi. Ed ambedue fuggivano,
come esseri fantastici, sollevati dal vento, lui e la donna, presi
dalla corrente misteriosa d’un inspiegabile ardore, protesi verso
una meta ignota, arsi dalla sete d’una rivelazione.
E fuggivano, fuggivano,
saltando e superando ogni ostacolo, aggirando ogni macigno, evitando
ogni pruno o roveto, prodigando in scintille d’argento l’acqua
dei ruscelli.
La raggiunse sotto una
vasta quercia. Ella era appena smontata di sella e lo attendeva. Era
lievemente alterata dalla corsa e i suoi occhi brillavano.
Saltò giù dalla sella e
legò la briglia all’albero. La guardò mentre ella gli sorrideva.
“ Andiamo di qua, per
questo sentiero “ disse, tendendogli la mano. Egli la seguì,
silenziosamente.
Camminarono nel bosco,
dove i raggi del giorno filtravano appena. Dopo circa una mezz’ora
si fermarono dinanzi a un edificio in rovina, coperto quasi
interamente da erbe rampicanti.
Ella levò il viso verso
la facciata della costruzione, dove un rosone in alto rivelava il
santuario. Il sole lo faceva risplendere e i vetri colorati inviavano
bagliori misti di luce turchina e rossa. Pareva un grande occhio la
cui iride avesse catturato il riflesso dei tramonti.
Vicino scorreva un
ruscello e dietro il tempio formava un piccolo lago azzurro. Come
Misandra si specchiò nelle acque, disse : “ Un tempo venivo qui
con le amiche, prima di sposarmi, e, in pieno inverno, ricordo, ero
l’unica a gettarmi in questo laghetto gelido. Dovevo essere
cianotica quando uscivo. Erano tutte preoccupate e mi abbracciavano,
stringendosi a me e sfregandomi con forza. “
Così diceva e Mauro
all’udirla si sentiva invadere da un sentimento d’ammirazione.
Misandra era davvero una bella creatura selvaggia, un essere
assolutamente spontaneo e senza freni, eccetto quelli della sua
naturale sensibilità. Era strana, raffinata e, pure, quasi inculta,
poi che la sua gentilezza non era frutto d’artificio. Ella era
bella e leggiadra creatura della foresta.
Si sedette sotto un
albero, al riparo dal sole. Ed egli le si pose dinanzi, accovacciato
sull’erba, e la guardava in silenzio.
Misandra sembrava in
attesa. In attesa forse di qualche evento insolito o dell’arrivo di
un altro cavaliere ?
In verità Mauro era
tenuto in sospeso dall’incertezza. Non era pienamente consapevole
dei propri sentimenti. Essi gli sfuggivano, come sabbia fra le dita,
perché non era abituato a sondare in profondità il suo animo. Ma
aveva il vago sentore che quell’attesa non fosse per un altro,
fosse proprio per lui, l’incerto, ancora ignaro della sua stessa
natura.
Ella aspettava, aspettava
da lui un segno, la rivelazione senza ambiguità, il sì definitivo.
E allora vinto
definitivamente, abbattuto dagli strali d’Amore, aggiogato al carro
della guerriera, egli si sentì trascinare da una forza arcana e
irresistibile verso di lei. Allora la baciò, in uno stato di vera
incoscienza, non più padrone di se stesso. Ed ella non pareva
turbata, ma pareva che quell’istante le fosse noto da molti anni.
E tuttavia non fu
l’abbraccio che Mauro aveva sempre sognato. Fredde erano le labbra
di lei, stranamente fredde come il ghiaccio. Come poteva essere ? Non
emanava il suo corpo un senso di straordinaria energia, tale che
l’innamorato ne era stato interamente conquistato, quasi fosse
dinanzi ad una volontà superiore e ardentemente vitale ? Ah, le
rosse labbra di lei quali i petali purpurei d’una rosa invasa dalla
rugiada, come potevano essere tanto dure, fredde, marmoree ?
E l’incanto si ruppe, ed
ella si alzò quasi immediatamente e, nulla dicendo, appressatasi al
cavallo, rimontò in sella e s’avviò senza aspettare.
Egli rimase. Seduto su un
sasso, restava a fissare il terreno, immobile e cupo. Non ebbe più
la coscienza del tempo. Osservava le cose intorno a lui e vi si
confondeva, oggetto smarrito nella foresta frusciante, sotto il sole.
Quando tornò alla villa,
vide nell’atrio alcune scatole vuote, poi, furtivamente, notò nel
grande specchio all’ingresso che in fondo al corridoio una porta
era aperta. Si avvicinò incuriosito, ma ristette sulla soglia, da
che una moltitudine di riflessi abbagliava la vista.
A perdita d’occhio
s’apriva un labirinto e un’unica immagine si riproduceva di lato
in lato, ed ella, avvolta in una fluente veste purpurea, dardeggiava
più fortemente dei lumi e in ogni canto appariva sinuosa,
ammaliante, tiranna. Dovunque era, in ogni angolo, come al meriggio i
raggi furiosi sopra il mare, e i suoi occhi ovunque fissavano, e
anche lui coglievano incauto, al laccio.
Si ritrasse, colpito,
forse, dal suo ghigno beffardo, se pur non fosse una pura
impressione, e, veloce, anelante, s’affrettò verso la sua stanza.
Le tenebre correvano sul
mare di porpora, mentre ad occidente nubi insanguinate si accalcavano
sopra l’abisso del sole fuggitivo, nella morte del giorno.
Lunghi manti oscuri, nere
ali, si distendevano sovra strisce esili di fiamme che si
disperdevano e si spegnevano fra le onde d’un azzurro cupo e
freddo, fluitante su profondità insondabili. Il mare, denso e pigro
e quasi viscoso come un vino forte, esalava a tratti riflessi
violacei, respirando monotono.
Negli intervalli del
flusso regolare, quale in un sonno senza sogni svanisce la coscienza
del dormente, sgombra di pensieri inquieti, il silenzio accoglieva la
terra, recandola nelle regioni del nulla.
Sognava.
Fluttuava la luce sotto
gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa,
che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un
ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei
balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra
le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle
montagne.
Una vegetazione rigogliosa
si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e
bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora
si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie
ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel
recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il
fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le
armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a
furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive
del grande fiume.
Su per l’acqua
veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla
riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali
tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e
leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con
le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano
riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il
fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore
della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di
fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le
gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si
appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti
generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli
boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico
del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a
quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore
inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni,
deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e
s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione
dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei
lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra
ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di
flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la
corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso,
carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace
traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa
volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava
per sempre un dio antico.
Al centro di
quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente
all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca
della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se
pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico
tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta,
rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma
muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i
rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e
nerastro.
Un trono imponente, di
pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a
campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa
una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù
per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di
perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro
dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava,
le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua
schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede
giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte
colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su
cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un
indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in
mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di
gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale,
illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del
loto.
Il volto brunito era
impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche
risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride
plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il
mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare
inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano,
allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude
entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della
donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle
innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di
seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del
senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono
l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel
cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito
d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte
colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude,
la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo
della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a
incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite
dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva
d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle
speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel
tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca,
nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in
generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi
pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e
nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava,
innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del
suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé,
sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del
sangue.
Ed ella s’entusiasmava
nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e
reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella
danza interminabile.
E il sangue stillante
dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico
della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde
scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i
frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un
fiume veemente, verso il mare murmureo.
Il mattino si annunciò
col rombo del tuono. Un forte temporale avvolgeva il cielo e le
folgori baluginavano qua e là scaricando la loro terribile potenza.
Egli aperse, sceso dal
letto e vestitosi, la finestra della camera e volse lo sguardo verso
il mare.
Sulla spiaggia accadeva
qualcosa di strano.
Furiosamente al galoppo
falciava le onde spumose sulla battigia argentea un cavallo nero,
gigantesco, che al limite della terra e del mare nitrendo fuggiva.
Ebbe sentore del fluire
dei propri pensieri, perciò Mauro uscì dalla villa e più rapido
del vento, non sapeva dove, anch’egli fuggì.
Si ritrovò in un luogo
oscuro, ignoto, di fronte a un edificio d’antica pietra, invaso dai
rampicanti.
Avanzò lungo la sagoma
scura, al mormorìo di un venticello fioco e maligno, sussurrante tra
le branche cupe.
Le foglie frusciavano
sotto i suoi passi, le foglie volitavano intorno secche e leggere
come mani furtive, rapide, agili su magico strumento. Sentiva insieme
alla sferza del vento la corsa dei suoi pensieri, quale un cocchio
trascinato da furibondi cavalli. Dove procedeva ? Dove andava ? Si
libravano sull’aura attorno a lui le ali degli albatri, si posavano
sopra le mura in attesa, come arpie. La sagoma della luna ancora
recava barlumi quasi lampi, illuminazioni improvvise, intuizioni in
una lunga ricerca.
Ecco il portale. Ecco le
fantastiche icone volgersi a lui per presentare i misteri dei mondi
di là. Tre colpi echeggianti batté e s’aperse senza rumore quasi
onda che si ritrae.
Egli entrò nella chiesa
abbandonata. L’edificio diroccato era appena illuminato
internamente. Tortuosi turbini arcavano sopra abissi verde lucenti,
onde s’agitavano, fluitavano vapori, fluivano fumi d’incenso,
fremevano braci, s’attorcevano lunghissime chiome nere che
procombevano sopra rupi. Nella penombra la fantasia s’accendeva e
scorgeva rocce schiumanti e muscose invase d’acque scure,
cuposonanti, avvolgentesi in spire serpentine.
Non erano candele, né
lampade, sibbene dèmoni lunghi come serpi, dalla capigliatura
ardente e dagli occhi di bragia. L’altare maggiore splendeva a
giorno, ad opera di enormi candelieri viventi, perché erano braccia
che uscivano misteriosamente dal marmo e aprivano le mani accogliendo
lingue di fuoco dai colori più vari. In mezzo all’altare era
adagiato un gatto nero di proporzioni gigantesche, dalla coda
ondeggiante e dagli occhi spaventosamente lucenti. La coda
s’allungava nel buio oltre l’ara, in vortici, in tortuosi
turbini.
I bacili dell’acqua
lustrale erano fessi sull’orlo, ma pieni ormai d’acqua piovana e
maculati dal muschio sul marmo opaco.
L’aria, greve, stagnava
fra le colonne possenti che reggevano ancora in parte la volta, come
grandi alberi la chioma nell’impenetrabile foresta. Dall’alto il
crollo di qualche troppo ardita arcata lasciava filtrare una scìa di
raggi che si fondevano in un lucore sulfureo con le fiammelle
guizzanti del rito sabbatico.
Poté così notare alla
sua sinistra un grande affresco, di tra le colonne, ora vivido
stranamente, come appena dipinto.
All’estremità d’una
radura sorgeva una roccia simile a un pulpito, circondata da quattro
pini ardenti, la cui cima crepitava esalando un fumo acre e denso.
Intorno il fuoco gettava sprazzi di luce che rivelavano una folla
numerosa, nel cuore di quella selvaggia solitudine.
Un inno lento e solenne si
levava da quell’adunanza misteriosa. Un canto malinconico, pio in
apparenza per la musica conforme alle sacre cerimonie, si
manifestava, man mano che se ne distinguevano le parole, un’orribile
litania di bestemmie. E tra una strofa e l’altra, il coro muggiva
bestialmente quasi il rintronare d’un organo potente, e un boato
s’effondeva ed echeggiava per la selva fondendosi con il crosciare
dei torrenti e l’ululato dei lupi.
E il fuoco che fremeva
sopra la roccia s’aperse in una vampa del colore del sangue, e
apparve un’immagine sinistra, l’ombra d’un uomo nerboruto e
gigantesco.
E come dalle montagne
s’ode il cupo rombo del tuono e i venti trascinano con sé il
livido manto delle nubi che cala sulla pianura quale una valanga
tumultuosa, così la sua voce cadeva dall’alto.
Mauro si destò
improvvisamente dal sonno, sudato e tremante, e dopo alcuni minuti,
quando scorse i primi raggi del sole penetrare nella stanza
attraverso le fessure delle persiane, allora si rese conto che era
stato tutto un sogno.
Allora affrontò la luce
del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e
mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria
di giochi femminili.
Più lontano gruppi di
fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di
fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla
battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le
sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le
ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era
bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per
qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò
lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve
brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo
cuore.
Continuò a camminare
lungo la riva.
Un impulso insolito lo
spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni,
era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci
inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui,
serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel
bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita
per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano
nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a
intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il
silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare
nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un
continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni
incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un
ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte,
giovane e immortale.
E inerpicandosi per il
sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul
nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del
mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli
magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini.
Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri
duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse
bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la
presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia
innitrendo.
La foresta si risvegliava.
Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui
rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel
sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E
lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli
scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva
armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una
sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò.
Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza
e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò
la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì
in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del
bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli
scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu
l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni
essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il
volto?
Respirò profondamente.
Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non
diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un
laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti
intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria
immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo,
come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle
piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si
avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le
gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti,
dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una
melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo
imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di
forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei
suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della
foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere
della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la
percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro
meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma
all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti
erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo
le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza
umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli
uomini.
Potentemente e
prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva
trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole
filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi
passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba
fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di
pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente
denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La
solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le
nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione
della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù,
nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso,
disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e
luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il
richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura
onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito
del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e
seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle
pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto
d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco
spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di
capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il
cammino.
Più fitta era la
vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si
fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva
appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di
percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni
albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si
tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo
il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in
un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il
tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra
due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda
pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino
all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il
sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un
odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli
arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei
corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi
colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la
porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della
montagna.
E quando vi giunse, vide
alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a
sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno
meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una
ricchezza inattesa.
E il sole irradiava,
splendido nella sua forza.
E a lui parve di
trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso
ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie
vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita.
Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un
inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita
degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito
dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi
del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente
il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la
scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le
strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e
di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce
musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e
indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta
del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese
nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il
fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno
degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava
sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque
riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o
che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del
dio!
E guardò le nubi a
occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve
che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi
grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della
luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia
lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde
velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad
isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti
giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore
del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio
dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
“ Ma tardo, al fine
m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e
su le corde mosse
come da un breve anelito;
e li chiusi,
vinto; e sentii come il
frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea
nell’ombra;
e sentii come lontanar tra
quello
la meraviglia di dedalee
storie,
simili a bianche e lunghe
vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di
tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano
nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si
assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e
fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni,
che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si
amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare
il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò
nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto
tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si
distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne
anch’egli un puro elemento.
Nell’ombra smarrendosi,
dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle vallate,
sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù gracchiavano
corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal grembo della
montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e minacciose, e
strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse fughe tra rami
contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed inni di gioia
selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle tenebre. Strane
note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo, dalle macchie
nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E il mare, selvaggio e
crinito, urlava contro le rocce, laggiù nell’oscurità, a tratti
inluminata dalla lampada notturna, quasi dietro le nubi frante
sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava e sibilava, un
tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta irta e
biancastra, fluente chioma incolta.
Nel vago lamento
sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un corteo sinuoso
saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi silenzi avanzava,
scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro ascendeva dai meandri
di una stigia palude. Nel folto dei canneti echeggiava un uluco
maligno. E il grido si mesceva al roco afflato delle onde perse.
E perso egli era
nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo dilungantesi nel
fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna esangue. Forse
anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i grani purpurei
della punica mela e a inghiottirli, per sempre nell’abisso della
propria condanna ?
Rispose un nero tuono, e
fremette vacillando come all’aprirsi d’un baratro sotto di lui.
La nebbia ribolliva
intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e solidi sotto di lui,
bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi oceani del cupo
inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido, sparso di sassi
come teste tronche di dannati.
Gli parve che il suo corpo
immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né
vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso,
una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella
palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e
la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri
sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva,
pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud
inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e
marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una
desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale
soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della
luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi
capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue
palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo
morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro
delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la
luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio
degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore,
quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei
suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando
è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il
sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando
gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura
del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del
sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce
misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso
respiro glauco.
Era forse un angelo sorto
dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in
mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono
colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue
palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed
ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede
sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta
nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata
sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano
aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso
la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato
la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il
mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito
degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue
corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E
imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano
inutilmente.
Era la luna che l’aveva
resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore
sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri.
Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei
boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio
delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra
i dirupi.
Aveva ella il potere di
suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di
mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un
sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca
di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere
spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei
sogni.
Così a lui apparve
nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la
luce.
Una barca lunga e nera,
ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto
al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via
per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con
un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel
tempo e nello spazio.