Misandra se ne stava sotto
un vasto pino. Il venticello proveniente dal mare ne faceva stormire
le fronde. I raggi trapelavano fra i rami, che rilucevano nel
mezzogiorno.
Come già in un tempo
lontano ella lo aveva atteso sotto quelle foglie tremule in autunno,
così ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a lei
potesse meglio ricordare. Ricordare quegli anni trascorsi quasi in un
eterno oblio. Rammentava il canto dolce, ora fievole ora intenso,
librarsi in invisibili volute dalla sua pura bocca. E al suono d’una
chitarra si disperdevano le note e la voce nella campagna, alla sera,
quando soltanto un lembo di luce purpurea aleggiava stanco sopra
l’orizzonte del mare. “ O dove sei, incanto di gioventù, sorriso
perduto per sempre ? “ diceva egli a se stesso.
E ora a lui si volgeva,
benevola, e lo guardava sorridendo : “ Sono contenta.
Finalmente sei venuto, dopo tanto tempo. Io ti ho sempre atteso, con
ansia in certi momenti, ma in fondo al mio cuore non dubitavo di te,
non potevo dubitare. “ Così diceva, e lo fissava nel volto,
intensamente. Era pallida, ed avvolta nella luminosità del meriggio
pareva emanare una luce propria. I lunghi capelli le discendevano
sulle spalle, fulvi come i raggi dei tramonti, e gli occhi le
splendevano, vivi e strani, indefinibili, poi che ne variava il
colore a seconda dell’ombra o del chiarore, sì che andavano, dalla
pupilla all’estremo arco dell’iride, dal giallo oro al verde
luminoso, al grigio azzurro proprio dell’onde del mare.
Egli alzò allora lo
sguardo verso di lei. Ed ella, silenziosa, intensamente fissò i suoi
occhi. Ed egli scorse gli occhi di lei, brillanti e invasi di dolce
indulgenza.
E subito abbassò il
volto, preso da vergogna. In verità non riusciva a sostenere la
vista di lei. Un fiotto veemente di passione gli aveva rivelato in un
brivido che ella era della sua medesima natura, della sua medesima
sostanza, e ch’essi respiravano nel desiderio l’aura della
medesima armonia.
Ma erano fuggiti gli anni
lontani, erano per sempre fuggiti. Ed egli ricordava le speranze
della sua giovinezza, quando inerpicandosi per le pendici delle
montagne saliva sino alla vetta di roccia in roccia e sognava una
vita splendida e possente. Ma la vita si rivelava troppo breve e
troppo vana.
E così, dopo ch’egli se
n’era andato dal suo paese per tentare la fortuna nell’esercito,
ella s’era unita in matrimonio con il conte Oberto.
Il conte era peraltro un
buon amico di Mauro. Avevano trascorso gran parte della giovinezza
insieme e avevano insieme corteggiato le ragazze negli anni
dell’esuberante libertinaggio.
E in quegli stessi anni,
ahimé, egli era innamorato di Misandra. Ma la povertà non gli aveva
permesso di chiedere la sua mano. Così era partito, in cerca di
avventure, e per dimenticare.
Ma non aveva dimenticato.
Ed ora era dinanzi alla donna che aveva amato, che amava. Quale altro
sacrificio doveva chiedere al suo cuore ?
Ella si allontanò,
chiamata da un servitore per alcune faccende alla villa. Cortesemente
si congedò dicendogli che presto si sarebbero rivisti e che nel
frattempo egli poteva approfittare della bella giornata di sole per
camminare ancora nel bosco o lungo la spiaggia dove la pineta
estendeva i suoi rami ondosi.
Obbedì.
La passeggiata era in
effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione
ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il
profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo
anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette
sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si
fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo
espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini
che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde
d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino
al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di
sabbia.
Il fumo s’alzava
nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro
cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di
fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante.
Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli
esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che
cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli
lenti.
E ricordava quella
bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie,
traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine
e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi
d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui
apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo
invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde,
spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque
ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel
sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica
d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni
come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi,
che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria
esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava
solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a
qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in
brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa
vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido
riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle
fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli
invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei
corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi
paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti
alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi
dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri
dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare.
Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva
profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come
l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio,
avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi
volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della
popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la
scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la
bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando
appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora
i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio
come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile
prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente
l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i
mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava
illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di
colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio
interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi
che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella
sua anima.
Se chiudeva gli occhi
spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli
nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità
trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del
tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e
le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua
fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza,
misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un
attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima
del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel
vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla
propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando
nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga
e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di
attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei
momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una
freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e
di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato
all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono
sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella
solitudine.
E quegli istanti di felice
rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la
giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido
della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia
trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà
quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della
corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato
dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi
senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla
rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite
dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia,
così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché,
nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono
flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana
sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si
celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le
tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin
dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi
gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava
il suo occhio, luminoso come un faro.
E avanzava sul sentiero
sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i
loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare
immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che
navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare
dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a
quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al
mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di
ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le
foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo
e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che
nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce
indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e
il fulgore degli astri.
E si allontanò nel
silenzio.
Ma allora le tenebre
estendendosi sul mare iniziarono a costituirsi in una coltre fitta e
impenetrabile, mentre il sole soltanto emergendo dalla linea
dell’orizzonte occidentale apparve fissarlo quasi un occhio
sbarrato, immenso.
Era ella quel biancore,
quella luce che svaniva a poco a poco su per il promontorio, nel
folto del bosco ?
Anche un tempo s’era
abbandonata a una fuga, leggera, sulla spiaggia, in un tramonto ormai
vago nella memoria. E poi s’era rifugiata fra alte piante, nella
pineta e nella macchia, e poi ancora sotto gli eucalipti fino alla
foce d’un piccolo fiume.
Forse fra piante
fantastiche ella s’era celata, né apparve dapprima. E poi, in una
fragranza di fiori sconosciuti e di ghirlande intrecciatesi nel
canneto e sui tronchi dei lauri, si svelava, lievemente avvolta nei
suoi lunghi capelli ambrati.
Così ora ella scompariva
fra gli alberi oscuri e certo il suo candido corpo era illustrato dai
raggi discreti della luna che s’insinuavano tra il fogliame. Ella
si schermiva forse dietro larghe foglie d’edera, umide di rugiada
notturna. Forse s’era volta verso di lui e lo guardava un poco
stupita. Gli occhi brillavano della luce stellare e la chioma
castanea le cadeva sofficemente sul dorso e le fronde le nascondevano
il pube e la sua pelle eburnea s’illuminava, sì ch’ella appariva
veramente una dea.
Ah, dunque ricominciava la
sua angoscia, ed ella gli sfuggiva ancora nella notte, mentre il
turbamento della sua apparizione non si placava. Ancora, non aveva
forse desiderato ucciderla ? Sì, avrebbe dovuto offrirla in
sacrificio per espiare la colpa degli avi, per giustificare le
sofferenze della sua stirpe. Ma ne era ancora innamorato, e pure, in
lui sorgeva veemente la brama di averla tra le braccia e di
stringerla, di soffocarla. Quanta inutile sofferenza ! Quanti anni
votati al dolore, per quell’illusione, per quell’attrazione
funesta verso il miraggio della felicità ! Un delirio soltanto, uno
spossante e insensato delirio carnale, un’aspirazione al
soddisfacimento dei sensi privo di vero appagamento. Ma perché
l’aveva conquiso così, dietro la malìa del suo fascino, oscuro,
pieno d’insidie e di tormento ?
Ricordava, ancora una
volta. Una bambina di circa dieci anni, ma già sviluppata e
aggraziata, gli si era posta innanzi, a una svolta della strada, sul
far del pomeriggio, quando egli era solito fare la passeggiata, e gli
aveva chiesto, con un imbarazzo pieno di una vaga sensualità, che
ora fosse. Egli aveva risposto, e in quell’istante aveva sentito un
tremito invaderlo da capo a piedi, e un folle desiderio gli aveva
fatto stringere i pugni in una morsa d’odio. E forse ella
trascorreva ancora oltre l’orizzonte oscuro, in lande non
rischiarate dalla luna, o si stendeva mollemente su un prato
d’asfodeli e osservava le stelle sorgere ed estinguersi più in
fretta del suo respiro.
Misandra certo non era
tanto giovane. Ma certo possedeva appieno quel fascino che
inconsapevolmente attrae magicamente e, pure, nulla concede. Ed era
nella sua ingenuità tanto maliziosa da apparire un’acqua di
montagna che sgorga brillante dalle rocce e si aduna limpida nelle
gore, ma è così gelida da ferirvi la bocca.
Ed egli era stato ferito
ed era fuggito per l’impossibilità di sostenere ulteriormente il
suo sguardo. Si era ritirato in se stesso ed era andato lontano, in
lontani paesi. Ma laggiù il suo cuore si era infranto. Quando
passava per i lunghi viali, alla vista degli innamorati il suo cuore
si spezzava e il suo essere lacerato volendo obliare se stesso
desiderava seguire gli altrui destini. Così i suoi occhi seguitavano
con infinita malinconia il cammino di una coppia felice che procedeva
ignara d’ogni altro essere nella piena luce del giorno.
E sognava allora, sognava
la sua Misandra, coricata sui fiori sotto le fronde dei pini, mentre
dormiva e una brezza leggera le scostava appena i capelli sulle
guance e la luce del sole le illuminava la fronte. O la pensava al
lume della luna, pallida e giacente sul candido letto, mentre il
disco di Diana argenteo appariva all’ampia vetrata della stanza. “
Oh, dormi Misandra, dormi “ allora pensava, “ e non svegliarti
nel mio cuore se non per dirmi che non mi lascerai mai più.”
Così diceva chiuso in se
stesso, ma non poteva, non riusciva a reprimere una brama turpe di
vendetta.
Eppure nei rigidi
pomeriggi d’inverno, durante le lunghe e solitarie passeggiate
nella foresta, gli accadeva proprio di ricordarsi di lei, ma era una
visione d’estate, un sogno dorato di rami carichi di fronda sotto
un cielo risonante di gioiosi canti di cicale e di uccelli vivaci.
E l’immaginazione lo
trascinava verso i piaceri proibiti e l’abbraccio di un corpo roseo
e delicato, splendido nella luce del giorno, e lo seduceva l’eterno
fascino della donna, della regina del mondo, cui s’immolano tutte
le vite, tutti i palpiti dei cuori, per morire e rinascere sempre.
Ed egli la immaginava
allora dove l’aveva vista una volta, ai margini del mare, sui
limiti dell’infinito. E gli parve davvero ch’ella fosse una
messaggera dell’al di là, un essere divino inviato sulla terra per
abbracciare i mortali nel cerchio del suo fascino immortale.
Ed ella appariva cinta
della veste di primavera anche nell’autunno delle cose e degli
esseri circostanti, sempre giovane. E il vento giocava tra i suoi
capelli e sommuoveva le vesti, e le onde del mare lambivano
delicatamente le dita dei suoi piedi, ed ella appariva sul limite
della riva, quasi attendesse la venuta d’una navicella che dovesse
traghettarla per ignoti reami.
E quando il crepuscolo
stendeva sul mare il suo manto purpureo e le onde violacee si
riversavano sul lido e intorno agli scogli, stancamente, allora egli
la vedeva rifulgere innanzi al disco solare morente, circondata
dall’alone rossastro, mentre i suoi piedi poggiavano su una terra
insanguinata dai raggi proni a estinguersi nelle ombre. Ed era
davvero fulgente anche nella luce della sera, perché risaltava sullo
sfondo immenso dell’orizzonte, del mare e del cielo, dove onde e
nubi parevano fondersi in un abisso di vortici, di profondità, di
precipizii insondabili e di spazi inconcepibili, ma ella sembrava
appunto precederli sorridendo, quasi che non le fosse ignoto alcun
mistero.
La malinconica rimembranza
del passato lo allontanava dalla realtà, lo induceva a poco a poco
in uno stato di torpore fisico, simile al sonno. Ed egli ricordava, e
i ricordi si confondevano con i desideri inespressi, con le velleità
immaginate, coi sogni dell’adolescente.
Quanto aveva bramato
rivelarle il suo mondo interiore ! Con l’ardore tipico di chi
s’illude e ingenuamente persegue le fantasie di cui si nutrono i
sospiri dei ragazzi come una fonte d’acqua pura e di vita
immortale, così il suo cuore avrebbe voluto affidare in grembo a lei
i suoi segreti.
Ma ella non aveva saputo,
ella ancora non sapeva.
E la malinconia possedeva
il cuore di Mauro. La malinconia che non è grigia tristezza, sibbene
rimpianto d’un mondo lontano, d’un sogno irraggiungibile. Egli
aveva veduto con gli occhi dell’amante una figura d’indescrivibile
bellezza, che solo un cuore d’amante o una mente d’artista può
concepire. Egli aveva visto colei che non è di questa terra, il cui
fascino è circonfuso d’un alone immortale, ed ella pure era ignara
di tanto incantesimo, quasi un portento della natura, inconsapevole
del semplice miracolo.
Una malinconia profonda,
una incolmabile insoddisfazione lo tormentavano di fronte
all’esistenza degli altri uomini. Egli aveva disgusto della loro
vita, insulsa e ignobile, delle loro meschine aspirazioni, dei loro
stolidi guadagni. Egli avvertiva talvolta se stesso quale un cigno
tra frotte di rane gracidanti, sicché fuggiva dalla moltitudine
saccente e chiacchierona e si rifugiava nel suo mondo interiore, alto
come una montagna assolata sopra le valli brumose.
Alto come una montagna
assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce
d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le
parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia
terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai
mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari
d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia
sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei
pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o
frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore
cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva
intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era
al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il
sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento
ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era
il mondo.
E pensava all’amore di
Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa,
così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei
pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la
segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava
le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte
Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto
essere le sue.
Così guardava dall’alto
del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso
il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole
faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo
manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli
uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di
sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il
rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad
annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si
volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli
apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re
dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la
vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le
vene del suo stesso fuoco ? Gli occhi gli si riempirono di
quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione
strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma
di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi
occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica,
insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del
vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara
visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago
dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava
della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i
suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente
del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno
a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita
rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in
nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come
affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua
giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di
tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno
di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci,
quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti
iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume
impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.
Vagò a lungo per la
foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche
raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva quando non
erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante
una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore
era un verde brillante.
Pareva davvero che un
qualche essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il
passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.
Adagiato sull’erba,
preda d’un torpore ebbro di sogni, egli guardava fisso davanti a
sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva,
luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e
fluttuante come un alone d’oro, i capelli erano lunghissimi e
riverberanti bagliori di fiamma e le toccavano morbidamente i
contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo.
I suoi occhi erano tinti del colore del sottobosco d’autunno, belli
e variegati, bronzei e vibranti di lingue di fuoco.
Tutto intorno era luce, e
gli alberi erano accarezzati da un vento luminoso, una corrente di
pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta come una linfa
vivificante, come un’anima infusa per prodigio in un organo per
lungo tempo muto. Il suo viso si fermò su di lui. Ella fissò i suoi
occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve abbandonarsi a un’onda
di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza
dell’alba. Ora sembrava che da uno scrigno d’oro gli si offrisse
l’essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque
abbandonarsi.
Ma, quando sollevò il
capo dagli steli abbattuti, non più era luce, se non lo stanco
raggio del crepuscolo. E già alitava la fresca sera.
Egli era cosciente del
proprio transito, della propria debolezza, del proprio passaggio
permeato di sogni, di visioni estatiche. Insufficiente piccola parte
di un tutto incomprensibile, coglieva in un istante la propria
essenza in una mano, una goccia d’acqua dispersa nell’oceano
infinito.
Come quando sulle montagne
la luce splende sopra le nevi, così il suo sguardo posava estatico
sulla vastità circostante. Il silenzio degli spazi sconfinati gli
cantava intorno il suo inno di gloria. In quell’attimo coglieva
anche la propria eternità.
L’eternità del rito,
sempre nascente infante.
L’immagine di sé fra il
padre e la madre, un tempo, in un luogo lontano nella valle, su un
prato innanzi al sole del mattino. Nel respiro intorno degli alberi,
nell’alito del vento luminoso, il suo sé scorgeva estatico e
ignaro il mistero dei giorni, ancora nel nido fra i sorrisi dei
genitori pieni di speranze. Ah, anime amate!
La luce attorniava il
bimbo, i sorrisi brillavano come aurore, del sole che sempre sorge.
Ah, immergersi nell’alito
del mattino, come in una corrente d’acqua gelida, sentirne il
brivido e l’impeto !
Come la dea Aurora intesse
nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del
mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio
delle creature.
E la luce si dilatava in
un’onda iridata sopra le giogaie dei monti e sulle rocce e sulle
selve brune.
Il mare dell’essere si
rivelava nell’immensa distesa.
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