domenica 12 ottobre 2014

Misandra, cap. 5

Il conte Oberto lo introdusse nella biblioteca. Era una stanza vasta, di forma rettangolare, altissima, tanto che nella penombra non si discerneva il soffitto. I lati erano ingombri di pesanti armadii, in legno nero, colmi di antichi volumi. Tra un armadio e l’altro c’erano grandi cornici dalla doratura brunita dagli anni, contenenti le immagini degli avi. I ritratti erano incupiti dalle muffe e si distinguevano appena i volti, ma in tutti erano visibili gli occhi penetranti, le cui pupille nere risaltavano nel biancore stranamente conservatosi fra le palpebre grigiastre. Dei candelabri, imponenti, di ferro lavorato, s’ergevano intorno a un tavolo massiccio, posto al centro del vano, sul quale stavano accatastati libri di diverso formato, rilegati in cuoio e in pergamena, alcuni di essi aperti e collocati su forti leggii. I ceri diffondevano una luce appena sufficiente a illuminare quegli scartafacci polverosi e ammucchiati disordinatamente. Un senso d’oblìo ispirava l’immobilità della fiammella, quasi si fosse in una chiesa silenziosa o in un santuario immoto, senza fedeli.
Il conte lo guardava con un sorriso enigmatico. Pareva quasi l’atteggiamento d’uno studioso dinanzi ad un interessante fenomeno o ad un oggetto di particolare valore. E tuttavia lo sguardo era distaccato, privo di emozione, decisamente freddo.
Un libro era aperto sul leggìo. Erano le “ Opere e giorni “ di Esiodo. Nella pagina a fronte del testo greco erano sottolineati i versi seguenti :
“… quindi la voce
le dette il nunzio divino, nominò la donna
Pandora, ché tutti gli aventi dimora in Olimpo
le donarono dono, pena agli uomini affaticati. “
E mentre il conte parlava, il suo occhio incuriosito veniva raggiunto dai raggi della luna sorgente, nella notte della stanza. L’ampia vetrata azzurra era simile ad un circoscritto specchio d’acqua, entro il quale, per puro caso, si contemplasse il volto stupito del satellite deserto, o, più poeticamente, il pallido viso di Diana sognante. E quel lucore turchino s’adagiava mollemente sui volumi, inargentandone la doratura del dorso, o illustrando le pagine aperte d’indecifrabili ombreggiature. Pareva che tra una lettera e l’altra s’aggirassero arcani inconoscibili siccome fughe d’ignoti sicarii per le vie oscure delle città deserte, che, per certo, illuminava vagamente quella medesima lampada tenue e reticente testimone. Cupi lati ed angoli di case lanciavano le ombre segrete a perdersi nella notte, lontano, nella città, i cui fuochi pari a punti ardenti pullulavano lungo il golfo.
E come laggiù sembrava che anche qui echeggiasse, sebbene attutito dalla distanza e dalle mura, il rantolo marino, che forse ora si fondeva in tutt’uno col respirare degli uomini, più stanco nella fine del giorno.
Il conte pose termine al suo discorso. Mauro non aveva inteso una parola, poi che la sua mente aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma questa volta dovette per forza prestare attenzione perché il suo ospite lo prese sottobraccio con una discreta energia e, aperta una porta, che prima non aveva notato, lo introdusse in un vano buio donde una scala a chiocciola scendeva nella più completa oscurità.
Il conte accese una torcia e fece da guida.
E così dalla torre ove era possibile spingere lo sguardo sulla vasta campagna in cui le sagome degli alberi fremevano alla gelida brezza, e il cielo bluastro svelava la luna e le stelle e un senso di potenza arcana s’impadroniva del cuore degli uomini, degli uomini che s’affrettavano verso casa quasi timorosi dell’oscurità, mentre le stanze s’illuminavano e s’udiva un canto lontano, e solo un lembo estremo di sole ancora appariva quale favilla crepitante nella cenere che lentamente s’estingue, così dalla torre scendevano lentamente entro le ombre della terra.
Dopo molti gradini giunsero davanti ad una porta. Il conte l’aperse ed entrarono in una camera bassa, senza mobilia.
La luce della torcia pose in risalto immediatamente di fronte a loro sulla parete una lunga crisalide colore del sangue, dal volto di donna, circondata da un’aureola di raggi rossi. Sulle altre pareti dei medaglioni in bronzo rappresentavano teste di animali fantastici, il cui nome era a Mauro ignoto.
L’alto sarcofago era di legno smaltato del tutto simile ai sarcofagi egizii e la testa di donna splendeva nel luccichìo dell’ebano e dell’oro. I grandi occhi oblunghi e bianchi fissavano Mauro con le immote pupille nere come la notte. Egli sorpreso si volse istintivamente altrove, ma lo sguardo si rifletté improvviso in uno specchio ovale che giungeva dal pavimento sino al soffitto, entro una cornice dorata.
La sua stessa figura lo intimorì, poi che gli parve minacciosa e cupa quale quella d’un démone.
Stornò subito la vista e andò verso l’ingresso dove ancora sostava la sua guida. Essa abbozzò un sorriso, e però s’irrigidì quasi immediatamente. Nella penombra, illuminato direttamente dalla torcia, il profilo del conte dava l’impressione del volto d’un idolo di pietra. I tratti, scarni e marcati, parevano scolpiti nel marmo, e la luce li investiva esaltandone il pallore.
Si allontanarono percorrendo un lungo corridoio scarsamente illuminato. Le loro ombre s’allungavano sulle pareti, le sagome delle teste si fondevano nell’oscurità. Mauro seguiva il conte Oberto ed inspiegabilmente percepiva ed assorbiva una vaga sensazione di freddo che propagandosi nelle membra gli faceva crescere dentro un sentimento di collera.
Uscirono infine su una vasta terrazza dove era disposto un telescopio per osservare le stelle, ed altri oggetti d’uso sconosciuto.
Lontano le onde argentine si riversavano monotone sul lido, mormorando.
Nel buio ebbe la percezione vaga, insondabile, della propria esistenza. Con terrore ne accoglieva l’idea. Esisteva. Era un privilegio o una condanna ? Il tempo scorreva, era trascorso, e già non si sentiva più, egli era vissuto. Ah, era veramente come quel buio anche lui ? Sarebbe stato forse un giorno una notte fredda, senza stelle ?
Ma, appena presa quella boccata d’aria, gli parve che il conte lo conducesse ancora per altri lunghi corridoi entro una vasta cavità della terra. Gli mostrò in ampie sale innumerevoli scaffali, colmi d’antichi libri, i cui titoli arcani lo lasciarono confuso, stupefatto e smarrito in una crescente vertigine. L’uomo parlava, sibilava, tuonava, il suo eloquio sembrava un fiume vorticoso e che rombasse intorno a lui assordandolo, nelle stanze immense.

E quel fiume si perse nella notte, confluì nel silente mare stellato, ondeggiando nelle tenebre misteriose.
E si perse sovra il fiume scintillante il suo pensiero, si smarriva nei meandri vorticosi, si librava sopra i flutti, alato e candido uccello marino. Verso altri lidi, verso altre terre lontane, anelava all’al di là, laggiù ove l’oscuro orizzonte procombeva nelle infinite solitudini.
Domani, un altro giorno, un altro giorno ancora. Fino a quando ?

Fino a quando il sole non si leverà alto nel cielo e l’uomo sulla cima della montagna aspetterà d’essere inondato dalla sua luce. Allora, volto lo sguardo diritto verso di esso, sentirà l’anima irraggiare dalle membra e fondersi in Lui in un abbraccio perenne.
Sentirà i Suoi raggi attraverso il suo corpo e il suo corpo diventare i Suoi raggi e lo sguardo levato al cielo librarsi nell’alto, libero e senza limiti planare nell’azzurro, calmo e veloce come un grande alato bianco che s’innalza nei vortici radiosi.






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