Il conte Oberto lo
introdusse nella biblioteca. Era una stanza vasta, di forma
rettangolare, altissima, tanto che nella penombra non si discerneva
il soffitto. I lati erano ingombri di pesanti armadii, in legno nero,
colmi di antichi volumi. Tra un armadio e l’altro c’erano grandi
cornici dalla doratura brunita dagli anni, contenenti le immagini
degli avi. I ritratti erano incupiti dalle muffe e si distinguevano
appena i volti, ma in tutti erano visibili gli occhi penetranti, le
cui pupille nere risaltavano nel biancore stranamente conservatosi
fra le palpebre grigiastre. Dei candelabri, imponenti, di ferro
lavorato, s’ergevano intorno a un tavolo massiccio, posto al centro
del vano, sul quale stavano accatastati libri di diverso formato,
rilegati in cuoio e in pergamena, alcuni di essi aperti e collocati
su forti leggii. I ceri diffondevano una luce appena sufficiente a
illuminare quegli scartafacci polverosi e ammucchiati
disordinatamente. Un senso d’oblìo ispirava l’immobilità della
fiammella, quasi si fosse in una chiesa silenziosa o in un santuario
immoto, senza fedeli.
Il conte lo guardava con
un sorriso enigmatico. Pareva quasi l’atteggiamento d’uno
studioso dinanzi ad un interessante fenomeno o ad un oggetto di
particolare valore. E tuttavia lo sguardo era distaccato, privo di
emozione, decisamente freddo.
Un libro era aperto sul
leggìo. Erano le “ Opere e giorni “ di Esiodo. Nella pagina a
fronte del testo greco erano sottolineati i versi seguenti :
“… quindi la voce
le dette il nunzio divino,
nominò la donna
Pandora, ché tutti gli
aventi dimora in Olimpo
le donarono dono, pena
agli uomini affaticati. “
E mentre il conte parlava,
il suo occhio incuriosito veniva raggiunto dai raggi della luna
sorgente, nella notte della stanza. L’ampia vetrata azzurra era
simile ad un circoscritto specchio d’acqua, entro il quale, per
puro caso, si contemplasse il volto stupito del satellite deserto, o,
più poeticamente, il pallido viso di Diana sognante. E quel lucore
turchino s’adagiava mollemente sui volumi, inargentandone la
doratura del dorso, o illustrando le pagine aperte d’indecifrabili
ombreggiature. Pareva che tra una lettera e l’altra s’aggirassero
arcani inconoscibili siccome fughe d’ignoti sicarii per le vie
oscure delle città deserte, che, per certo, illuminava vagamente
quella medesima lampada tenue e reticente testimone. Cupi lati ed
angoli di case lanciavano le ombre segrete a perdersi nella notte,
lontano, nella città, i cui fuochi pari a punti ardenti pullulavano
lungo il golfo.
E come laggiù sembrava
che anche qui echeggiasse, sebbene attutito dalla distanza e dalle
mura, il rantolo marino, che forse ora si fondeva in tutt’uno col
respirare degli uomini, più stanco nella fine del giorno.
Il conte pose termine al
suo discorso. Mauro non aveva inteso una parola, poi che la sua mente
aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma questa volta
dovette per forza prestare attenzione perché il suo ospite lo prese
sottobraccio con una discreta energia e, aperta una porta, che prima
non aveva notato, lo introdusse in un vano buio donde una scala a
chiocciola scendeva nella più completa oscurità.
Il conte accese una torcia
e fece da guida.
E così dalla torre ove
era possibile spingere lo sguardo sulla vasta campagna in cui le
sagome degli alberi fremevano alla gelida brezza, e il cielo bluastro
svelava la luna e le stelle e un senso di potenza arcana
s’impadroniva del cuore degli uomini, degli uomini che
s’affrettavano verso casa quasi timorosi dell’oscurità, mentre
le stanze s’illuminavano e s’udiva un canto lontano, e solo un
lembo estremo di sole ancora appariva quale favilla crepitante nella
cenere che lentamente s’estingue, così dalla torre scendevano
lentamente entro le ombre della terra.
Dopo molti gradini
giunsero davanti ad una porta. Il conte l’aperse ed entrarono in
una camera bassa, senza mobilia.
La luce della torcia pose
in risalto immediatamente di fronte a loro sulla parete una lunga
crisalide colore del sangue, dal volto di donna, circondata da
un’aureola di raggi rossi. Sulle altre pareti dei medaglioni in
bronzo rappresentavano teste di animali fantastici, il cui nome era a
Mauro ignoto.
L’alto sarcofago era di
legno smaltato del tutto simile ai sarcofagi egizii e la testa di
donna splendeva nel luccichìo dell’ebano e dell’oro. I grandi
occhi oblunghi e bianchi fissavano Mauro con le immote pupille nere
come la notte. Egli sorpreso si volse istintivamente altrove, ma lo
sguardo si rifletté improvviso in uno specchio ovale che giungeva
dal pavimento sino al soffitto, entro una cornice dorata.
La sua stessa figura lo
intimorì, poi che gli parve minacciosa e cupa quale quella d’un
démone.
Stornò subito la vista e
andò verso l’ingresso dove ancora sostava la sua guida. Essa
abbozzò un sorriso, e però s’irrigidì quasi immediatamente.
Nella penombra, illuminato direttamente dalla torcia, il profilo del
conte dava l’impressione del volto d’un idolo di pietra. I
tratti, scarni e marcati, parevano scolpiti nel marmo, e la luce li
investiva esaltandone il pallore.
Si allontanarono
percorrendo un lungo corridoio scarsamente illuminato. Le loro ombre
s’allungavano sulle pareti, le sagome delle teste si fondevano
nell’oscurità. Mauro seguiva il conte Oberto ed inspiegabilmente
percepiva ed assorbiva una vaga sensazione di freddo che propagandosi
nelle membra gli faceva crescere dentro un sentimento di collera.
Uscirono infine su una
vasta terrazza dove era disposto un telescopio per osservare le
stelle, ed altri oggetti d’uso sconosciuto.
Lontano le onde argentine
si riversavano monotone sul lido, mormorando.
Nel buio ebbe la
percezione vaga, insondabile, della propria esistenza. Con terrore ne
accoglieva l’idea. Esisteva. Era un privilegio o una condanna ? Il
tempo scorreva, era trascorso, e già non si sentiva più, egli era
vissuto. Ah, era veramente come quel buio anche lui ? Sarebbe stato
forse un giorno una notte fredda, senza stelle ?
Ma, appena presa quella
boccata d’aria, gli parve che il conte lo conducesse ancora per
altri lunghi corridoi entro una vasta cavità della terra. Gli mostrò
in ampie sale innumerevoli scaffali, colmi d’antichi libri, i cui
titoli arcani lo lasciarono confuso, stupefatto e smarrito in una
crescente vertigine. L’uomo parlava, sibilava, tuonava, il suo
eloquio sembrava un fiume vorticoso e che rombasse intorno a lui
assordandolo, nelle stanze immense.
E quel fiume si perse
nella notte, confluì nel silente mare stellato, ondeggiando nelle
tenebre misteriose.
E si perse sovra il fiume
scintillante il suo pensiero, si smarriva nei meandri vorticosi, si
librava sopra i flutti, alato e candido uccello marino. Verso altri
lidi, verso altre terre lontane, anelava all’al di là, laggiù ove
l’oscuro orizzonte procombeva nelle infinite solitudini.
Domani, un altro giorno,
un altro giorno ancora. Fino a quando ?
Fino a quando il sole non
si leverà alto nel cielo e l’uomo sulla cima della montagna
aspetterà d’essere inondato dalla sua luce. Allora, volto lo
sguardo diritto verso di esso, sentirà l’anima irraggiare dalle
membra e fondersi in Lui in un abbraccio perenne.
Sentirà i Suoi raggi
attraverso il suo corpo e il suo corpo diventare i Suoi raggi e lo
sguardo levato al cielo librarsi nell’alto, libero e senza limiti
planare nell’azzurro, calmo e veloce come un grande alato bianco
che s’innalza nei vortici radiosi.
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