lunedì 13 ottobre 2014

Misandra, cap. 6

Il conte aveva deciso di festeggiare il compleanno di Misandra. Aveva così organizzato un grande ricevimento e dato ordine di non badare a spese e di allestire in tutto l’edificio un apparato magnifico e sontuoso.
Pareva che una strana frenesìa lo possedesse di scialacquare le sue ultime sostanze. In effetti la villa sembrava invasa dal corteo di Bacco e la musica delle danze risuonava entro le mura e fuori del giardino si effondeva sul mare e sovra la selva addormentata.
Le luci delle finestre e dei lampioni erano i fuochi notturni di misteriosi riti e solo l’alta luna assisteva conscia e indifferente, pallida del suo statuario pallore.
Mauro s’aggirava sbigottito tra la folla che aveva invaso il palazzo solitario e che rumoreggiava fastidiosamente tra le volte agili del salone e correva dietro chimere amorose nei viali del parco.
La musica di Strauss, banalissima, accompagnava quella frenesìa di godimento, che s’inebetiva di champagne e di pasticcini.
Mauro trascorreva nel fiume ignoto delle chiacchiere, delle occhiate, delle risa convulse, delle barzellette, delle maldicenze, tra quella moltitudine congestionata, dallo sguardo scintillante e dalle pupille spalancate.
Passava come una foglia secca sull’acqua torbida d’un torrente, ignaro e ignorato, anonimo. Gli altri non lo notavano infatti, lo sfioravano, gli ostacolavano la via, gliela tagliavano e per poco non lo urtavano, quasi che egli non esistesse neppure.
Egli allora s’affacciò alla finestra e guardò nel giardino.
Al centro di esso un’antica fontana di marmo, segnata dal tempo, lasciava scaturire il suo mormorìo diffuso all’intorno quasi una melodia misteriosa e leggiadra, come la veste fluttuante d’una ninfa che corresse a celarsi nei boschi profondi. Attorno al bacino marmoreo crescevano piante diverse, dalle foglie gigantesche e dai fiori magnifici e sontuosi. C’era un arbusto, in un vaso d’alabastro, che offriva alla vista una profusione di fiori purpurei e pareva scintillare d’un alone di magici raggi. Tutto il suolo era coverto di rami e di foglie, di erbe sconosciute e floride e ridenti in un intrico di fogliame lussureggiante.
E allora scorse Misandra. Camminava lentamente nel giardino, accarezzando con la veste sollevata dal venticello le piante e i fiori. Tra i rami degli alberi la sua capigliatura era una fronda copiosa e scintillante che ondeggiava al respiro della primavera. La sua gonna scarlatta si confondeva coi cespugli delle rose rampicanti e poi ella appariva a mezzo busto fra l’orgoglio delle ortensie, come ninfa in una visione di poeta.
Allora veramente pensò d’essere giunto in un mondo meraviglioso e incantato, che la sua fantasia aveva sempre evocato nei lunghi momenti d’ozio degli inverni trascorsi. Fioriva la primavera e rinasceva quel mondo.

Prima di concedersi ai molti, Misandra aveva intrattenuto i più intimi. Ella, seduta innanzi al caminetto, aveva letto il racconto di Eichendorff, e aveva così creato un’atmosfera di malìa indicibile. Un brivido, in verità, aveva attraversato Mauro. Egli aveva riconosciuto la singolare somiglianza del suo destino con il personaggio di Raimondo.
Perduto, tutto è perduto ! “ Ripeteva anch’egli a se stesso. In effetti anche per lui gli anni della giovinezza erano trascorsi velocemente come in un oscuro sogno.
E allora lo invase un senso di infelicità profonda, irrevocabile, senza appello, la sensazione che la vita fosse per lui un buio carcere, ove dovesse trascorrere un’esistenza priva di luce, priva di gioia. Lo catturò un sentimento di solitudine senza conforto, di abbandono. E come Misandra l’aveva respinto a suo tempo, così lo respingeva per sempre la vita.
Ma egli comprendeva anche che il volto impassibile di Misandra, i suoi celesti occhi quali gelide acque d’oceano, fissandolo mentre ella raccontava, simboleggiavano per lui la vita stessa. Parevano dirgli : “ Non sai che l’esistenza stessa è abbandono, desolazione e rovina ? Non sai che Amore si compiace del tormento e che il desiderio è una tabe infame ? Ma che speri, che hai sperato ? Illuso ! La felicità non esiste e l’uomo che la cerca piangerà le lacrime amare della disperazione. “
La vita fuggiva. Dalla finestra egli scorgeva i raggi che attraversavano i rami degli alberi, nel giardino pervaso dalla luce stanca del crepuscolo. E un lembo di piana marina, calmo e desolato, taceva presso gli scogli dell’alto dorso del promontorio oscuro.
La vita fuggiva. Insieme al mormorìo delle piante vetuste nella brezza leggera che di quando in quando faceva tremolare le foglie, anche nel suo cuore sentiva risonare un murmure roco, quasi un’eco del sordo flusso del sangue. Correvano gli attimi via assieme alla luce sempre più fievole e si sperdevano le foglie trascinate dal respiro notturno, via.
Eppure egli provava inesplicabilmente, proprio nell’attimo stesso in cui coglieva la vanità delle vanità, provava un senso di pace, un invito certo alla quiete notturna, eppure non al semplice sonno. Era un conforto, quasi, quel pensiero vago che gli si formava nella mente; proprio all’annuncio della morte del giorno nella corsa del tempo che non ha requie, avvertiva la presenza dell’eterno.
E udì una musica fluire tenue nella stanza ed empirla con la sua malìa. Misandra suonava al pianoforte alcuni brani dal concerto n. 21 di Mozart.
E lo prese una dolce sensazione d’abbandono. Gli pareva che la sua intima essenza unendosi a quelle note incantate si dissolvesse in onde trasparenti e fugaci fantasmi, o nei vortici di fumo dei sigari, accesi dal conte e da qualche ospite. Gli pareva di fuggire e di perdersi nei meandri della memoria o nei labirinti del desiderio d’un tempo. E come scorse la luna nella vasta notte, sola nel mare delle tenebre, lo morse la consapevolezza amara della propria solitudine senza rimedio, della disperazione del suo amore proibito e negato sin dalla nascita.
Il suo volto s’irrigidì, non volle esprimere più alcun sentimento.
E, come un tempo, amare lacrime salirono dal profondo del cuore. Amare lacrime come un tempo, quando, nell’estate dopo l’ultimo anno di liceo, sgomento innanzi al vuoto del futuro e al deserto del passato, mentre se ne stava, momentaneamente ospite, nella villa di Misandra, seduto sopra un divano a baldacchino posto nel mezzo del giardino rigoglioso, amare lacrime aveva trattenuto a stento, colpito da un senso d’abbandono senza pari, di desolazione senza rimedio, reggendo tra le mani il volume dell’oscuro irlandese, che aveva voluto rinnovare le peripezie d’Ulisse. E, come allora, la memoria tenera e lenta lo pervase del suo languore, lo adagiò nel vago sognare un sogno lontano.
E la melodìa interiore, figlia della rimembranza di molte musiche più volte ascoltate con rapimento ed estasi, lo condusse verso gli anni della sua prima giovinezza, quando, nell’atmosfera di una biblioteca, leggeva libri di poesie, avvolto dalla luce violacea e sensuale della sera che si faceva innanzi, speranza tentatrice, quasi un miraggio di donna, sorridente nell’ombra.

Il convito notturno iniziò tra lo scintillìo dei vassoi e le portate rigogliose e variegate come fioriture.
Mentre i commensali bevevano e mangiavano con ostentazione di gaudio, meccanicamente, Mauro osservava Misandra, la quale sorseggiava a tratti, pigramente, il vino rosso nel calice. Oh, ella beveva il sangue della vita ! Così gli pareva, che quella bevanda fosse sangue, scaturito con forza dalle vene aperte, caldo sangue. E le sue labbra violacee lo bevevano con lentezza, lo assaporavano con una voluttà amara, crudele. Gli angoli delle labbra erano appena convessi, gli angoli esterni delle palpebre, ma solo per un istante, aggrinzivano appena. Gli occhi grandi irradiavano una luce febbrile, le pupille erano un cielo accecante. Ella arcuava un poco la nuca, sì che i capelli cadevano sulle spalle, risaltanti dalla scollatura dell’abito, con un’onda di color cupo, scintillante alla luce dei candelabri in fili d’oro, quali sul mare crespo i raggi già declinanti dell’astro fuggente.
I suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli fluttuanti risaltavano inebriando sulla veste rossa, dall’ampia scollatura, una veste come una fiamma che l’avvolgesse, ne annunziava i lineamenti e il disegno mirabile della figura elegante, nobile, maestosa.

Il silenzio, fuori, si stendeva sconfinato sulle colline selvose, mescendosi agli impenetrabili brani di tenebra nel folto delle valli, nell’insondabile buio del mare. Era un’orda brulicante di lupi famelici, un’onda baluginante d’occhi crudeli.
Avesse potuto cogliere in quel momento il mistero profondo della luna pallida e lucente sul mare come una regina sovra il suo magico trono, cosciente di tutti gli incanti ch’effonde sopra le onde nere, e rappresentarne la malìa da pittore scaltrito ad ogni sfumatura. Avesse potuto cogliere il bagliore dei suoi occhi e chiuderlo come una gemma in un castone prezioso e sentire fra le dita la fragranza dei capelli e avere le tempie ebbre del loro profumo !
Mentre il convito si quietava e s’allontanavano i commensali in un’altra stanza e la penombra si stendeva sovra il mobilio non più lucente, egli si dileguava, percorreva il lungo corridoio, fuggiva nell’ombra e intorno a lui turbinavano i lumi dei candelabri, egli s’immergeva nella notte oscura.
Richiamato da un canto lontano, dal canto malinconico della luna alta nel cielo, si precipitava nei viali del giardino invaso dalla brezza, respirava profondamente, ansimava, guardava le stelle, estatico e atterrito.
E il canto lunare era sempre più forte, stringeva il suo cuore, lo avvolgeva nella spirale. Ah, non finiva, non finiva mai !
Come il fluido sonoro delle danze, percepito in lontananza, lo attrasse, egli inviò se stesso colà, ove meno avrebbe voluto, e s’immise nella luce dolciastra.

Mauro le si avvicinò lentamente, mentre la musica da ballo si diffondeva sempre più imperiosa, e, senza quasi ch’ella se ne accorgesse, le prese la mano e la strinse nella sua con forza. Ella non si mosse, stupita, e pervasa dal fluido invisibile del desiderio, ma poi, vinta dal dolore della stretta che si faceva a poco a poco più intensa, ritrasse il braccio con lievissimo disappunto, che soltanto si percepiva dallo sguardo smarrito, e volse a Mauro un’occhiata interrogativa, colma di dubbi e di domande senza risposta.
E mentre la musica intorno vibrava, volteggiava nell’aria calda della festa, il pendolo ondeggiava scandendo il ritmo del tempo e le ore procedevano senza indugio verso la fine. Come un esercito inesorabile le ore avanzavano, parevano circondare gli ospiti, ormai impauriti, li assalivano, li coglievano alla gola col cappio invisibile. Momentaneamente ammutolì l’orchestrina e la musica vanì vaporosamente nel fumo delle candele. Le gambe divennero di pietra e il tempo parve fermarsi.
Oltre l’ampia vetrata, lievemente socchiusa, la grande sagoma nera del mare rumoreggiava contro la scogliera. S’avviluppavano le onde e a tratti scorgevasi la cresta spumosa al bagliore della luce lunare come di prodigiosi cavalli neri dalla bianca criniera. Rollava, rombava, rampava e si tendeva sul lido con le sue spire, friggeva la spuma sulla sabbia e succhiata svaniva, smuovendo crepitanti i granelli quasi scintille.
Sulla collina, a destra del lido, cerea al lucore notturno, come una statua di nudo marmo, posava l’antica abbazia cinta da resti di un borgo, come spezzate vertebre accanto a lunghe ossa eburnee. Sagome oscillanti di fusti nati sulle rovine si stagliavano sulle mura quasi un teatro d’ombre. Ma sulla sommità d’un torrione una cupola ingannava a quella luce e sembrava un gigantesco teschio che volgesse il suo ghigno ai vivi, ancora immersi nell’illusione.
E fu allora che il cumulo delle ansie nell’animo suo precipitò entro di lui come un masso improvvisamente staccatosi dalla rupe, il male nero lo soffocò e i suoi occhi si gonfiarono quasi offesi da un fumo denso e maligno. Voleva liberarsene e non poteva. La maledizione del suo essere lo schiacciava, lo distruggeva. Il male innato pareva invincibile.
Si volse e pose attenzione alla ripresa della danza. La sala era tutta un seguito di vortici. Dame e cavalieri, cavalieri e dame; ma non erano dame, erano idoli dorati, scintillanti di gemme e di seta e pure innalzate sull’altare, anzi sul trono. Dominavano la scena e gli altri erano dominati. Sul loro viso non si scorgeva che un solo pensiero, desiderio e sentimento : dominare e stringere nelle spire del possesso. Erano dame ? Non erano neppure donne, in verità. Il volto era duro, tirato, segnato da rughe premature, legnoso. Il profilo marcato, gli occhi scintillanti e maligni, la bocca amara. Pareva che al lembo della loro veste fluttuante nel movimento fossero aggrappate, anzi agganciate le male grazie in uno strascico di pervertita bramosìa e di livore, frutto dell’invidia. Il loro anelito, nel sollevarsi dei petti, emanava un efflusso malsano, che stordiva. I cavalieri, allucinati, parevano girare su se stessi come trottole.
Ed egli guardò di nuovo verso la finestra.
Fuori non s’udiva più il minimo rumore. Non era altro che buio. Niente altro. Il nulla.




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