Il giorno dopo si recò
nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade
erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto
i colonnati di palme.
Quando si era svegliato il
sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata
chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel
corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più
solo.
Un corteo di luminose
immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni
giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al
centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la
domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella
fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una
vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un
ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di
margherite.
Ora il sole lo
accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure
intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti
rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva
in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di
fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le
vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto
sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino,
con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era
assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il
costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua
meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano
lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti,
assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto
l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo
schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città
si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si
gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti
frettolosi.
La città nel chiasso e
nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari
d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli
pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e
dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui
lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa
e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno
dovevano essere spazzati, migliaia di persone si agitavano correndo
di qua e di là.
La via che dalla piazza
centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e
già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare
i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di
macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva
per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso
dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il
mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi
nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via
sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e
teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù
spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in
lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda
aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco
vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si
scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il
vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani
volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo
fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa
recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in
gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il
molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava
legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo,
per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.
Sentiva nel sole
dell’estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei
raggi sulle onde quando immerso nel mare scorgeva la riva e le case
sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se
stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre zappava e,
ogni tanto sostando, aspirava l’aria intrisa d’aromi e d’esali
erbacei, allora era una cosa sola con la natura, non era più se
stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.
E come quando ascendeva
l’erta della montagna, aspra, assolata, battuta dal vento, sentiva
nella fatica il suo respiro venir più calmo, per contrasto, ma era
l’armonia che giungeva quale onda placantesi sulla riva, e allora
gli pareva davvero di cogliere il soffio vitale.
E fiottavano innanzi gli
anni dell’adolescenza, immagini rapide e guizzanti ormai. Ma
allora, seppure inconsciamente, egli aveva colto se stesso. E
ricordava appunto se stesso quale un occhio aperto sullo stupore del
mondo, e intimidito dinanzi all’incomprensibilità del mondo; ora
comprendeva quella fortuna. La vita è veramente meravigliosa se non
può neppure essere colta nei suoi istanti d’ogni giorno, né nei
suoi sogni, né nei suoi amori, né nella sua sconfinata bellezza,
come Misandra quando gli appariva ai raggi diurni, sulla riva del
mare, e i suoi capelli rilucevano quali onde pervase dal sole e i
suoi occhi irradiavano quali gemme penetrate di splendore. E il suo
sorriso era la brezza e il tepore del sonno.
Nell’alto volitavano
nubi leggere, ed egli pensava alla giovinezza fugace, adolescente
piena di avvenenza, o come a ragazzi vivaci le cui parole corrono
nell’aria. La giovinezza fuggiva e tutto il passato si sarebbe
risolto in un pallido sogno. Il succo della vita è il rimpianto, per
ciò che è stato e non è stato, comunque il rimpianto.
In un gemito di rivi
montani sentì fluire il passato fra sassi e sponde erbose e fiorite,
nel profumo dei verdi pascoli, quando si sono dissolti ormai le nevi
e i ghiacci della morte.
E la meta di quel ruscello
sarebbe stato il mare, il mare infinito e libero, il mare tremendo e
bellissimo.
Ed egli era una goccia del
vasto oceano, che si sarebbe effusa e dissolta nel vasto oceano.
E nella vasta calma del
pomeriggio estivo entrò nel salottino immerso nella penombra, e,
seduto sul divano, osservava lentamente i quadretti di varia foggia
appesi alle pareti, gli idillii di lontani boschi, verdi di fronde,
bagnati da pigri fiumi, le rame oscillanti alla brezza dei mattini,
nutrite di morbida luce, i volti umani di remote contrade, perdute
nell’occidente africano, i vivi colori della selvaggina stesa su
vassoi di vetro smeraldino, e sognava nella camera dei sogni, in quel
salottino a lui tanto familiare e, pure, sempre inconsueto e colmo di
strane memorie. Una realtà di sogni era la sua, una vita sognata.
E gli giunse alla mente,
inatteso, un suo vecchio e ingenuo sonetto degli anni di gioventù, e
lasciò che la memoria gli ripetesse :
“ La divina foresta
spessa e viva
mormoreggiava di tra i
raggi lenta
e d’ogni fronda, d’ogni
fiore auliva
dalla cima dorata all’erba
spenta,
e il ruscello tortuoso
s’insinuava
quale magica serpe fra
giunchiglie;
su meandri azzurri e verdi
arcava
gotica volta in corolle
vermiglie.
Poi correva giù, per le
vallate,
e si perdeva fra i massi,
rigirava
ancor schiumante in onde
intorbidate.
E nella bruma della piana
immensa
poi si smarriva fra la
messe densa,
e nell’ignota e oscura
via entrava. “
Una vita di sogni è una
giovinezza perpetua. Così era per lui, come un’illusione non mai
compresa non mai negata, come un meraviglioso miraggio che permane
nel deserto della vita.
L’occhio dell’orologio
a muro lo fissava inesorabile. Il tempo s’alternava come il respiro
regolare d’un dormente. La vita fuggiva come un ruscello fiottante
tra i sassi levigati. Presto sarebbe calata la sera e un nuovo mondo
di ombre avrebbe abitato la terra. La luna col suo corteggio di sogni
era prossima a vivere la vita riflessa del giorno come la luce del
sole, e il sonno s’accingeva a disserrare le porte del suo regno
sconfinato.
E così sul mare la stirpe
infinita delle onde abbracciava la luce nel commiato del sole oltre
l’orizzonte, e le nubi come cenere calda parevano a poco a poco
dileguarsi nel buio fra guizzi rossastri, e le rupi lontane si
ammantavano d’ombre.
E venne sulle ali
dell’aria, dal campanile sulla collina, il tocco dell’ora, e fu
necessario avviarsi verso la sala ove era atteso.
Una lunga tavola lucente,
immersa in un fiume di luce, era al centro e, intorno, antichi e
pesanti mobili pareva racchiudessero porcellane e cristalli, certo
ormai da molto tempo non più riesumati.
Il conte lo invitò a
sedersi e cominciò a parlare del più e del meno, mentre Misandra
sorseggiava del vino colore del fuoco e i suoi occhi rilucevano dei
bagliori del tramonto.
Come il giorno precedente
Mauro rimase colpito dal suo sguardo, dalla sfumatura d’ironia
crudele agli angoli degli occhi e della bocca. Attirava ciononostante
e prometteva voluttà misteriose e inenarrabili, e il cuore umano
certo si sarebbe totalmente perduto se avesse soltanto osato
abbandonarsi all’incanto di quel viso straordinario.
Così restava innanzi a
lei stupito e muto, quale fanciullo cui per la prima volta si sveli
ai raggi del giorno l’inattesa forma d’una giovane donna, ed egli
sta silente ed estatico, similmente la guardava Mauro e non riusciva
a emanciparsi da quel volto.
Improvvisamente entrò
nella stanza una figura leggera, avvicinandosi sveltamente a
Misandra, mentre nel giardino adiacente si udivano voci rincorrersi
tra le ombre.
Vide una fanciulla di
circa quindici anni, la più graziosa e delicata che mai fosse
possibile incontrare; i suoi occhi appena inumiditi dalla malinconia
gli parvero d’un languore estremo; lunghi capelli biondi
fluttuavano sulle spalle; la bocca era fresca e vermiglia; ella era
così seducente che non si poteva resistere alla sua presenza senza
ammirarla silenti.
Misandra le fece mille
complimenti, accarezzandola ripetutamente, fino a che abbandonò il
marito e Mauro, salutandoli soavemente, e presa per mano la bambina,
quasi aleggiando sovra i gradini dello scalone, scomparve alla vista
chiudendosi nel buio delle stanze superiori.
Ma il giardino era in
preda a volteggianti echi di fanciulle. Si inseguivano, giocando, fra
le aiuole, per i viali alberati, ed era come una seduzione di sirene
il vociare argentino che brillava insieme agli ultimi raggi
nell’aria.
Misandra, quale misteriosa
Circe, s’era dileguata ai loro sguardi, ma la sua presenza comunque
aleggiava tra l’abbondanza dei fiori, degli odori e dei frutti
ormai esausta.
Uno sgomento aveva
sorpreso Mauro alla festa, la volubilità, i moti fuggenti degli
occhi di Misandra lo avevano colmato d’incertezza. Ella mentiva. E
il suo passo nelle stanze della casa era l’ombra della sera che
avvolge lentamente e nasconde ogni parvenza e copre ogni rivelazione.
Ma era l’ombra della
sera oppur l’ombra della tempesta ? Il fruscìo della sua veste era
ora il roco fremere del vento, e il manto della sua figura annunciava
il corteo di nubi minacciose.
Così era entrata, come
nebbia tra forre d’alte e cupe montagne ove crescono abeti
sull’orlo dei precipizi.
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