sabato 18 ottobre 2014

Misandra, cap. 7

Il giorno dopo si recò nella vicina città, non molto lontano, presso il mare. Le strade erano colme di vetture rombanti, di autotreni, esalanti vapori sotto i colonnati di palme.
Quando si era svegliato il sole l’aveva accolto in un alone d’oro. La persiana non era stata chiusa e il mattino era liberamente entrato. Ed ora era come se quel corteo di luce lo accompagnasse ancora, nonostante non fosse più solo.
Un corteo di luminose immagini, miste ai sogni dell’alba, gli era intorno, di sogni giovanili, di ricordi. Una pineta, i prati, una fanciulla bionda al centro della compagnia. Erano gli ultimi giorni di scuola e la domenica anticipava ormai le prossime vacanze estive. Quella fanciulla un tempo gli piaceva, ma ora il suo viso non era che una vaga rimembranza, una luce dorata e rosea, un fluire biondo, un ruscello fiottante, limpido, su sassi d’argento, fra cespi di margherite.
Ora il sole lo accompagnava tra la polvere e i fumi della strada.
Ma la voce lontana eppure intima lo chiamava ancora, in un rigoglio di verdi distese e di alti rami inondati di luce, una musica potente e profonda che lo invadeva in un dolce brivido, remota malìa di divinità silvane, stormire di fronde nel silenzio, sapido mistero del sottobosco.
Ed ora scorgeva attorno le vetture sfrecciare, fastidiose, come le rondini in un volo infesto sfiorano saettando il capo del viandante, a difesa del nido vicino, con sibilo molesto.
Nell’ansia mattutina era assai più invadente il rumore dei motori, una minaccia costante, il costante monito del tempo che fugge e che vola verso un’ambigua meta. Dove, dove ?
Le strade si popolavano lentamente. I cittadini uscivano dai portoni con gesti lenti, assonnati. Piano, piano il formicolìo cresceva e avrebbe raggiunto l’apice a mezzogiorno. Le saracinesche dei negozi stridendo schiudevano al mondo le merci variopinte, come ogni giorno la città si rimetteva in moto e le arterie che l’attraversavano si gonfiavano del flusso di vetture, camions, autobus e di passanti frettolosi.
La città nel chiasso e nella polvere riprendeva la sua vita, fatta di traffici, di orari d’ufficio, di noiose lezioni a scuola, di code agli sportelli pubblici, di suoni di sirene e soprattutto del volo dei piccioni e dei gabbiani che si posavano sui camini e sugli alberi e sui lampioni, lasciandovi le reliquie corrosive della loro presenza.
La città come una grassa e giovane donna pubblica si svegliava. I marciapiedi ogni giorno dovevano essere spazzati, migliaia di persone si agitavano correndo di qua e di là.
La via che dalla piazza centrale entrava nella città vecchia era interdetta alle vetture e già popolata di venditori ambulanti negri che cercavano di attirare i passanti con il loro eloquio stentato. Un profumo di pollame, di macelleria, di salumi impregnava l’aria, la gente saliva e scendeva per la strada inumidita dall’acqua, gettata davanti all’ingresso dei negozi per la pulizia del mattino.
Verso le undici e il mezzodì il traffico avrebbe raggiunto il culmine per trasformarsi nel pomeriggio in una sorta di sfilata dei perdigiorno. Allora la via sottostante, la più elegante e quella che annoverava i cinema e teatri e i negozi di lusso, si sarebbe colmata di una gioventù spensierata e chiassosa, spesso volgare, che l’avrebbe percorsa in lungo e in largo più volte alla ricerca di futili passioncelle.
Un senso di noia profonda aleggiava sulla città. Intanto s’udiva verso il porto il rauco vociare marino diventare sempre più forte. Contro il molo le onde si scagliavano con furia schiantandosi in mille scintille di spuma e il vento fischiava isterico sovra il mare rabbioso.
Gruppi di gabbiani volitavano sulla città, sopra i cui tetti avevano ormai da tempo fatto il nido. In basso la turba transitava frenetica e rumorosa recandosi al mercato annonario, entrando per le viuzze laterali, in gran fretta come sempre, punta dall’assillo fastidioso e tenace.
Ma il mare urlava oltre il molo, il mare cui non interessano le vicende degli uomini, e inviava legioni di ondate a sfracellarsi contro gli scogli, nel tentativo, per ora vano, di strappare alla terra un po’ del suo dominio.



Sentiva nel sole dell’estate la pienezza della vita, ricordava il riverbero dei raggi sulle onde quando immerso nel mare scorgeva la riva e le case sulle colline, biancheggianti tra il verde dei giardini, ricordava se stesso fra le piante, dedito alla cura dei campi, mentre zappava e, ogni tanto sostando, aspirava l’aria intrisa d’aromi e d’esali erbacei, allora era una cosa sola con la natura, non era più se stesso, ma il puro e semplice atto, il puro e semplice fluire.
E come quando ascendeva l’erta della montagna, aspra, assolata, battuta dal vento, sentiva nella fatica il suo respiro venir più calmo, per contrasto, ma era l’armonia che giungeva quale onda placantesi sulla riva, e allora gli pareva davvero di cogliere il soffio vitale.
E fiottavano innanzi gli anni dell’adolescenza, immagini rapide e guizzanti ormai. Ma allora, seppure inconsciamente, egli aveva colto se stesso. E ricordava appunto se stesso quale un occhio aperto sullo stupore del mondo, e intimidito dinanzi all’incomprensibilità del mondo; ora comprendeva quella fortuna. La vita è veramente meravigliosa se non può neppure essere colta nei suoi istanti d’ogni giorno, né nei suoi sogni, né nei suoi amori, né nella sua sconfinata bellezza, come Misandra quando gli appariva ai raggi diurni, sulla riva del mare, e i suoi capelli rilucevano quali onde pervase dal sole e i suoi occhi irradiavano quali gemme penetrate di splendore. E il suo sorriso era la brezza e il tepore del sonno.
Nell’alto volitavano nubi leggere, ed egli pensava alla giovinezza fugace, adolescente piena di avvenenza, o come a ragazzi vivaci le cui parole corrono nell’aria. La giovinezza fuggiva e tutto il passato si sarebbe risolto in un pallido sogno. Il succo della vita è il rimpianto, per ciò che è stato e non è stato, comunque il rimpianto.
In un gemito di rivi montani sentì fluire il passato fra sassi e sponde erbose e fiorite, nel profumo dei verdi pascoli, quando si sono dissolti ormai le nevi e i ghiacci della morte.
E la meta di quel ruscello sarebbe stato il mare, il mare infinito e libero, il mare tremendo e bellissimo.
Ed egli era una goccia del vasto oceano, che si sarebbe effusa e dissolta nel vasto oceano.



E nella vasta calma del pomeriggio estivo entrò nel salottino immerso nella penombra, e, seduto sul divano, osservava lentamente i quadretti di varia foggia appesi alle pareti, gli idillii di lontani boschi, verdi di fronde, bagnati da pigri fiumi, le rame oscillanti alla brezza dei mattini, nutrite di morbida luce, i volti umani di remote contrade, perdute nell’occidente africano, i vivi colori della selvaggina stesa su vassoi di vetro smeraldino, e sognava nella camera dei sogni, in quel salottino a lui tanto familiare e, pure, sempre inconsueto e colmo di strane memorie. Una realtà di sogni era la sua, una vita sognata.
E gli giunse alla mente, inatteso, un suo vecchio e ingenuo sonetto degli anni di gioventù, e lasciò che la memoria gli ripetesse :

La divina foresta spessa e viva
mormoreggiava di tra i raggi lenta
e d’ogni fronda, d’ogni fiore auliva
dalla cima dorata all’erba spenta,

e il ruscello tortuoso s’insinuava
quale magica serpe fra giunchiglie;
su meandri azzurri e verdi arcava
gotica volta in corolle vermiglie.

Poi correva giù, per le vallate,
e si perdeva fra i massi, rigirava
ancor schiumante in onde intorbidate.

E nella bruma della piana immensa
poi si smarriva fra la messe densa,
e nell’ignota e oscura via entrava. “


Una vita di sogni è una giovinezza perpetua. Così era per lui, come un’illusione non mai compresa non mai negata, come un meraviglioso miraggio che permane nel deserto della vita.

L’occhio dell’orologio a muro lo fissava inesorabile. Il tempo s’alternava come il respiro regolare d’un dormente. La vita fuggiva come un ruscello fiottante tra i sassi levigati. Presto sarebbe calata la sera e un nuovo mondo di ombre avrebbe abitato la terra. La luna col suo corteggio di sogni era prossima a vivere la vita riflessa del giorno come la luce del sole, e il sonno s’accingeva a disserrare le porte del suo regno sconfinato.
E così sul mare la stirpe infinita delle onde abbracciava la luce nel commiato del sole oltre l’orizzonte, e le nubi come cenere calda parevano a poco a poco dileguarsi nel buio fra guizzi rossastri, e le rupi lontane si ammantavano d’ombre.

E venne sulle ali dell’aria, dal campanile sulla collina, il tocco dell’ora, e fu necessario avviarsi verso la sala ove era atteso.
Una lunga tavola lucente, immersa in un fiume di luce, era al centro e, intorno, antichi e pesanti mobili pareva racchiudessero porcellane e cristalli, certo ormai da molto tempo non più riesumati.
Il conte lo invitò a sedersi e cominciò a parlare del più e del meno, mentre Misandra sorseggiava del vino colore del fuoco e i suoi occhi rilucevano dei bagliori del tramonto.
Come il giorno precedente Mauro rimase colpito dal suo sguardo, dalla sfumatura d’ironia crudele agli angoli degli occhi e della bocca. Attirava ciononostante e prometteva voluttà misteriose e inenarrabili, e il cuore umano certo si sarebbe totalmente perduto se avesse soltanto osato abbandonarsi all’incanto di quel viso straordinario.
Così restava innanzi a lei stupito e muto, quale fanciullo cui per la prima volta si sveli ai raggi del giorno l’inattesa forma d’una giovane donna, ed egli sta silente ed estatico, similmente la guardava Mauro e non riusciva a emanciparsi da quel volto.
Improvvisamente entrò nella stanza una figura leggera, avvicinandosi sveltamente a Misandra, mentre nel giardino adiacente si udivano voci rincorrersi tra le ombre.
Vide una fanciulla di circa quindici anni, la più graziosa e delicata che mai fosse possibile incontrare; i suoi occhi appena inumiditi dalla malinconia gli parvero d’un languore estremo; lunghi capelli biondi fluttuavano sulle spalle; la bocca era fresca e vermiglia; ella era così seducente che non si poteva resistere alla sua presenza senza ammirarla silenti.
Misandra le fece mille complimenti, accarezzandola ripetutamente, fino a che abbandonò il marito e Mauro, salutandoli soavemente, e presa per mano la bambina, quasi aleggiando sovra i gradini dello scalone, scomparve alla vista chiudendosi nel buio delle stanze superiori.
Ma il giardino era in preda a volteggianti echi di fanciulle. Si inseguivano, giocando, fra le aiuole, per i viali alberati, ed era come una seduzione di sirene il vociare argentino che brillava insieme agli ultimi raggi nell’aria.
Misandra, quale misteriosa Circe, s’era dileguata ai loro sguardi, ma la sua presenza comunque aleggiava tra l’abbondanza dei fiori, degli odori e dei frutti ormai esausta.
Uno sgomento aveva sorpreso Mauro alla festa, la volubilità, i moti fuggenti degli occhi di Misandra lo avevano colmato d’incertezza. Ella mentiva. E il suo passo nelle stanze della casa era l’ombra della sera che avvolge lentamente e nasconde ogni parvenza e copre ogni rivelazione.
Ma era l’ombra della sera oppur l’ombra della tempesta ? Il fruscìo della sua veste era ora il roco fremere del vento, e il manto della sua figura annunciava il corteo di nubi minacciose.
Così era entrata, come nebbia tra forre d’alte e cupe montagne ove crescono abeti sull’orlo dei precipizi.















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