sabato 25 ottobre 2014

Misandra, cap. 8

All’alba gli stallieri arrivarono con le cavalcature sellate. A Mauro fu affidato un cavallo bianco, di linee eleganti e dalla criniera fluente, Misandra montò un poderoso stallone nero, nervoso, dagli occhi ardenti.
S’avviarono al trotto verso la piana, che s’estendeva tra la foresta e il fiume diretto al mare.
Mauro, appartenendo a una famiglia onorata ma povera, non aveva mai avuto un cavallo suo. Apprese da Misandra che quello consegnatogli era il destriero del conte Oberto. Con un sentimento di soddisfazione mista ad invidia, considerò con uno sguardo lo stupendo esemplare ch’era sotto di lui. “ Fortunato il conte ! “ pensò, rialzando il volto in direzione di Misandra. Ella gli volse una rapida occhiata, quasi avesse compreso.
Indossava una veste succinta, da cavallerizza. Contrariamente all’uso, non portava la gonna, ma calzoni attillati coperti da stivaletti leggeri, lunghi sino al ginocchio. Un corpetto di velluto rosso e un cappellino piumato costituivano il resto dell’abbigliamento.
Cavalcava alla maniera degli uomini, e pareva un bellissimo fanciullo che partisse all’avventura o per la caccia.
E quando il sole illuminò la selva e fra i tronchi verzicanti e muscosi dilagava un torrente di luce, Misandra lanciò al galoppo il suo cavallo, che nitrì selvaggiamente, invaso dalla foga improvvisa.
Allora anche Mauro si gettò all’inseguimento, ma il suo destriero riusciva a stento a inserirsi nella scia polverosa del superbo animale, che pareva dotato d'un impeto sovrannaturale, demoniaco, quasi che la volontà di Misandra riuscisse a fargli compiere prodigi. Ed ambedue fuggivano, come esseri fantastici, sollevati dal vento, lui e la donna, presi dalla corrente misteriosa d’un inspiegabile ardore, protesi verso una meta ignota, arsi dalla sete d’una rivelazione.
E fuggivano, fuggivano, saltando e superando ogni ostacolo, aggirando ogni macigno, evitando ogni pruno o roveto, prodigando in scintille d’argento l’acqua dei ruscelli.
La raggiunse sotto una vasta quercia. Ella era appena smontata di sella e lo attendeva. Era lievemente alterata dalla corsa e i suoi occhi brillavano.
Saltò giù dalla sella e legò la briglia all’albero. La guardò mentre ella gli sorrideva.
Andiamo di qua, per questo sentiero “ disse, tendendogli la mano. Egli la seguì, silenziosamente.
Camminarono nel bosco, dove i raggi del giorno filtravano appena. Dopo circa una mezz’ora si fermarono dinanzi a un edificio in rovina, coperto quasi interamente da erbe rampicanti.
Ella levò il viso verso la facciata della costruzione, dove un rosone in alto rivelava il santuario. Il sole lo faceva risplendere e i vetri colorati inviavano bagliori misti di luce turchina e rossa. Pareva un grande occhio la cui iride avesse catturato il riflesso dei tramonti.
Vicino scorreva un ruscello e dietro il tempio formava un piccolo lago azzurro. Come Misandra si specchiò nelle acque, disse : “ Un tempo venivo qui con le amiche, prima di sposarmi, e, in pieno inverno, ricordo, ero l’unica a gettarmi in questo laghetto gelido. Dovevo essere cianotica quando uscivo. Erano tutte preoccupate e mi abbracciavano, stringendosi a me e sfregandomi con forza. “
Così diceva e Mauro all’udirla si sentiva invadere da un sentimento d’ammirazione. Misandra era davvero una bella creatura selvaggia, un essere assolutamente spontaneo e senza freni, eccetto quelli della sua naturale sensibilità. Era strana, raffinata e, pure, quasi inculta, poi che la sua gentilezza non era frutto d’artificio. Ella era bella e leggiadra creatura della foresta.
Si sedette sotto un albero, al riparo dal sole. Ed egli le si pose dinanzi, accovacciato sull’erba, e la guardava in silenzio.
Misandra sembrava in attesa. In attesa forse di qualche evento insolito o dell’arrivo di un altro cavaliere ?
In verità Mauro era tenuto in sospeso dall’incertezza. Non era pienamente consapevole dei propri sentimenti. Essi gli sfuggivano, come sabbia fra le dita, perché non era abituato a sondare in profondità il suo animo. Ma aveva il vago sentore che quell’attesa non fosse per un altro, fosse proprio per lui, l’incerto, ancora ignaro della sua stessa natura.
Ella aspettava, aspettava da lui un segno, la rivelazione senza ambiguità, il sì definitivo.
E allora vinto definitivamente, abbattuto dagli strali d’Amore, aggiogato al carro della guerriera, egli si sentì trascinare da una forza arcana e irresistibile verso di lei. Allora la baciò, in uno stato di vera incoscienza, non più padrone di se stesso. Ed ella non pareva turbata, ma pareva che quell’istante le fosse noto da molti anni.
E tuttavia non fu l’abbraccio che Mauro aveva sempre sognato. Fredde erano le labbra di lei, stranamente fredde come il ghiaccio. Come poteva essere ? Non emanava il suo corpo un senso di straordinaria energia, tale che l’innamorato ne era stato interamente conquistato, quasi fosse dinanzi ad una volontà superiore e ardentemente vitale ? Ah, le rosse labbra di lei quali i petali purpurei d’una rosa invasa dalla rugiada, come potevano essere tanto dure, fredde, marmoree ?
E l’incanto si ruppe, ed ella si alzò quasi immediatamente e, nulla dicendo, appressatasi al cavallo, rimontò in sella e s’avviò senza aspettare.
Egli rimase. Seduto su un sasso, restava a fissare il terreno, immobile e cupo. Non ebbe più la coscienza del tempo. Osservava le cose intorno a lui e vi si confondeva, oggetto smarrito nella foresta frusciante, sotto il sole.



Quando tornò alla villa, vide nell’atrio alcune scatole vuote, poi, furtivamente, notò nel grande specchio all’ingresso che in fondo al corridoio una porta era aperta. Si avvicinò incuriosito, ma ristette sulla soglia, da che una moltitudine di riflessi abbagliava la vista.
A perdita d’occhio s’apriva un labirinto e un’unica immagine si riproduceva di lato in lato, ed ella, avvolta in una fluente veste purpurea, dardeggiava più fortemente dei lumi e in ogni canto appariva sinuosa, ammaliante, tiranna. Dovunque era, in ogni angolo, come al meriggio i raggi furiosi sopra il mare, e i suoi occhi ovunque fissavano, e anche lui coglievano incauto, al laccio.
Si ritrasse, colpito, forse, dal suo ghigno beffardo, se pur non fosse una pura impressione, e, veloce, anelante, s’affrettò verso la sua stanza.


Le tenebre correvano sul mare di porpora, mentre ad occidente nubi insanguinate si accalcavano sopra l’abisso del sole fuggitivo, nella morte del giorno.
Lunghi manti oscuri, nere ali, si distendevano sovra strisce esili di fiamme che si disperdevano e si spegnevano fra le onde d’un azzurro cupo e freddo, fluitante su profondità insondabili. Il mare, denso e pigro e quasi viscoso come un vino forte, esalava a tratti riflessi violacei, respirando monotono.
Negli intervalli del flusso regolare, quale in un sonno senza sogni svanisce la coscienza del dormente, sgombra di pensieri inquieti, il silenzio accoglieva la terra, recandola nelle regioni del nulla.
Sognava.
Fluttuava la luce sotto gli ampi rami e incantava il bosco, onda di una sinfonia misteriosa, che seduce con lunghi silenzi e con risonanze remote.
Udiva mormoreggiare un ruscello nella corsa canora, nei vortici della danza gaudiosa, nei balzi e nel gorgoglio delle spume, e nei pigri indugi nelle fosse tra le rocce muschiate e nel dedalo dei canneti curvati dai venti delle montagne.
Una vegetazione rigogliosa si addensava sotto gli alti pioppi. Un tappeto di trifogli rosei e bianchi, di euforbie, di margherite, di papaveri ammantati di porpora si stendeva dinanzi, e i suoi lembi estremi sconfinavano in ampie ombre azzurrine. Quali giardini misteriosi fiorivano oltre quel recinto di rami e foglie, mai violati dalla falce del contadino ?
I raggi filtravano tra il fogliame delle querce e fiottavano quali lingue di fuoco sovra le armature dei cavalieri al galoppo. Essi attraversavano la selva a furia, come una muta di veltri.
Sostarono presso le rive del grande fiume.
Su per l’acqua veleggiava una navicella sospinta dal fiato del vento. E, giunta alla riva, scesero donne dalle lunghe vesti damascate e rubee, quali tramonti estivi entro il mare immobile. Erano bionde ed alte e leggiadre e giocavano con mansueti e bianchi liocorni, cingendo con le braccia delicate i loro forti colli criniti e luminosi.
Sotto un ampio platano riposavano i cavalieri. E contemplavano la danza delle dame e il fulgore dei drappi sanguigni e delle criniere dorate e il pallore della loro nuda forma, che sbocciava tra i manti come tra petali di fiore. Quei corpi flessuosi e profumati si corcavano distendendo le gambe e le anche sopra la porpora, e il busto lievemente arcuato si appoggiava al tronco centenario. I seni si offrivano quali frutti generosi ad una prolungata astinenza, i capezzoli erano minuscoli boccioli di rose e disegnavano un triangolo perfetto con l’ombelico del ventre graziosamente convesso. Avvicinando le labbra a quell’eburnea coppa, i cavalieri ne aspiravano il madore inebriante. E mentre le dame continuavano a carezzare i liocorni, deponevano l’altra mano sovra le teste brune e sapide di sudore, e s’inebriavano anch’esse su quella foresta scura.
Tra la vegetazione dell’altra riva un’ombra si smarriva per la galleria bluastra dei lauri e delle querce fronzute e dei rampicanti tenaci intessuti tra ramo e ramo in una fitta trama.
Una melodia, un suono di flauto, un’elegia delicata di un pastore si librava lungo la corrente del fiume.
Là, nel bosco sontuoso, carico di corimbi rossi e di candidi calici, un pallore fugace traspariva tra l’edera e i rovi selvatici trionfanti.
Una danza misteriosa volteggiava nell’aria queta, memore di sogni d’arcadi, ove posava per sempre un dio antico.
Al centro di quell’architettura aerea, colossale, senza base né cima, fremente all’alito del vento, flora consacrata cinta dalla luce ormai fioca della sera azzurra, tante volte invocato, infine si manifestava, se pure vagamente e velato ancora, il dio.
Le colonne d’un antico tempio, quali tronchi di querce vetuste abbattute dalla tempesta, rivelavano tra l’intrico dei pampini e del fitto fogliame la sagoma muschiata, e sovra i capitelli si attorcevano e si aggrovigliavano i rampicanti lasciando penzolare i frutti strani, di color rosso e nerastro.
Un trono imponente, di pietra, s’ergeva fra il colonnato, ammantato di felci e di fiori a campanelle, e di gigli e di tulipani e di camelie e di orchidee.
Sul trono stava riversa una donna bellissima e bianca, la cui chioma come un fiume fluiva giù per i gradini, nelle sue onde brillando di mille gemme preziose, di perle e di coralli. Ella fissava sgomenta verso l’alto, al centro dell’ampio schienale di pietra. Il suo fianco sinistro sanguinava, le gambe si serravano fra loro quasi per un brivido di freddo.
Sotto l’arco della sua schiena appariva allora la gamba destra del dio gigante, il cui piede giallastro recava confitto sopra l’alluce un grande smeraldo.
Nell’ombra, fra le alte colonne, ergeva il busto, arabescato come la pelle di un serpente, su cui fiorivano fiori misteriosi e simboli magici seguivano un indecifrabile disegno. Le chiome corvine ricadevano sulle spalle in mille nodi, umide di profumi e di unguenti e intrecciate a collane di gioie e di perle. Un’aureola di fuoco cingeva il capo regale, illuminando nella mano destra lievemente alzata il candido fiore del loto.
Il volto brunito era impassibile, un simulacro bronzeo, le ampie sclere bianche risaltavano minacciose e fredde, gemme di ghiaccio in cui l’iride plumbea come il cielo settentrionale era profonda e immota quale il mare torpido intorno all’ultima Tule.
Nell’alto mare inviolato, nascosta dalle nebbie, simile a minaccioso uragano, allontana per molte miglia ogni ardito l’isola dei sogni. Chiude entro di sé tutte le passioni e le fantasie, e il capriccio della donna, la femmina primigenia, l’essere incosciente, folle innamorata dell’ignoto e del mistero, preda del male e oggetto di seduzione perversa e diabolica; sogni d’infanti, vagheggiamenti del senso, incubi mostruosi, abbandoni melanconici, visioni che rapiscono l’anima nelle onde degli spazi, nei segreti delle ombre, nel cerchio dei vizi e degli ardori colpevoli, dal germe, travestito d’ingenua innocenza, fino ai fiori fatali degli abissi.
Nella selva di alte colonne invasa da una luce verdastra come il grembo d’una palude, la figlia d’Erodiade si accingeva alla danza ricinta dal profumo della giovinezza. Eterna seduzione della vita, ella s’apprestava a incatenare nelle volute del fascino l’errare delle anime rapite dall’incantesimo della sua musica. Così ella le conduceva d’esistenza in esistenza nei dolci piaceri della sofferenza, nelle speranze inesauribili, negli inesausti impeti del desiderio, nel tormento dell’ansia insanabile, nell’ebrietà cieca, nell’invincibile delusione, rinnovando di generazione in generazione i medesimi palpiti, i medesimi gemiti, e gli stessi pianti, e gli stessi sorrisi, vittrice nel ricordo della vecchiaia e nell’oblio della morte.
Così ella sacrificava, innanzi agli occhi meravigliati del dio, nella scia della danza e del suo fascino tutte le vite cui elargiva l’eterno desiderio di sé, sull’altare innanzi al dio, colmando la coppa dell’offerta del sangue.
Ed ella s’entusiasmava nel volto del dio che viveva per lei, e ne baciava le labbra e reggeva fra le mani la testa di lui mozzata, che ella traeva nella danza interminabile.
E il sangue stillante dalla piaga scorreva in mille ruscelli, perdendosi nell’intrico della foresta, e se ne dissetavano gli spiriti della terra donde scaturivano le creature dei sogni e i desideri senza speranza e i frutti del desiderio compiuto e i rimpianti dei sogni sognati.
E il sangue fiottava, un fiume veemente, verso il mare murmureo.


Il mattino si annunciò col rombo del tuono. Un forte temporale avvolgeva il cielo e le folgori baluginavano qua e là scaricando la loro terribile potenza.
Egli aperse, sceso dal letto e vestitosi, la finestra della camera e volse lo sguardo verso il mare.
Sulla spiaggia accadeva qualcosa di strano.
Furiosamente al galoppo falciava le onde spumose sulla battigia argentea un cavallo nero, gigantesco, che al limite della terra e del mare nitrendo fuggiva.
Ebbe sentore del fluire dei propri pensieri, perciò Mauro uscì dalla villa e più rapido del vento, non sapeva dove, anch’egli fuggì.
Si ritrovò in un luogo oscuro, ignoto, di fronte a un edificio d’antica pietra, invaso dai rampicanti.
Avanzò lungo la sagoma scura, al mormorìo di un venticello fioco e maligno, sussurrante tra le branche cupe.
Le foglie frusciavano sotto i suoi passi, le foglie volitavano intorno secche e leggere come mani furtive, rapide, agili su magico strumento. Sentiva insieme alla sferza del vento la corsa dei suoi pensieri, quale un cocchio trascinato da furibondi cavalli. Dove procedeva ? Dove andava ? Si libravano sull’aura attorno a lui le ali degli albatri, si posavano sopra le mura in attesa, come arpie. La sagoma della luna ancora recava barlumi quasi lampi, illuminazioni improvvise, intuizioni in una lunga ricerca.
Ecco il portale. Ecco le fantastiche icone volgersi a lui per presentare i misteri dei mondi di là. Tre colpi echeggianti batté e s’aperse senza rumore quasi onda che si ritrae.
Egli entrò nella chiesa abbandonata. L’edificio diroccato era appena illuminato internamente. Tortuosi turbini arcavano sopra abissi verde lucenti, onde s’agitavano, fluitavano vapori, fluivano fumi d’incenso, fremevano braci, s’attorcevano lunghissime chiome nere che procombevano sopra rupi. Nella penombra la fantasia s’accendeva e scorgeva rocce schiumanti e muscose invase d’acque scure, cuposonanti, avvolgentesi in spire serpentine.
Non erano candele, né lampade, sibbene dèmoni lunghi come serpi, dalla capigliatura ardente e dagli occhi di bragia. L’altare maggiore splendeva a giorno, ad opera di enormi candelieri viventi, perché erano braccia che uscivano misteriosamente dal marmo e aprivano le mani accogliendo lingue di fuoco dai colori più vari. In mezzo all’altare era adagiato un gatto nero di proporzioni gigantesche, dalla coda ondeggiante e dagli occhi spaventosamente lucenti. La coda s’allungava nel buio oltre l’ara, in vortici, in tortuosi turbini.
I bacili dell’acqua lustrale erano fessi sull’orlo, ma pieni ormai d’acqua piovana e maculati dal muschio sul marmo opaco.
L’aria, greve, stagnava fra le colonne possenti che reggevano ancora in parte la volta, come grandi alberi la chioma nell’impenetrabile foresta. Dall’alto il crollo di qualche troppo ardita arcata lasciava filtrare una scìa di raggi che si fondevano in un lucore sulfureo con le fiammelle guizzanti del rito sabbatico.
Poté così notare alla sua sinistra un grande affresco, di tra le colonne, ora vivido stranamente, come appena dipinto.
All’estremità d’una radura sorgeva una roccia simile a un pulpito, circondata da quattro pini ardenti, la cui cima crepitava esalando un fumo acre e denso. Intorno il fuoco gettava sprazzi di luce che rivelavano una folla numerosa, nel cuore di quella selvaggia solitudine.
Un inno lento e solenne si levava da quell’adunanza misteriosa. Un canto malinconico, pio in apparenza per la musica conforme alle sacre cerimonie, si manifestava, man mano che se ne distinguevano le parole, un’orribile litania di bestemmie. E tra una strofa e l’altra, il coro muggiva bestialmente quasi il rintronare d’un organo potente, e un boato s’effondeva ed echeggiava per la selva fondendosi con il crosciare dei torrenti e l’ululato dei lupi.
E il fuoco che fremeva sopra la roccia s’aperse in una vampa del colore del sangue, e apparve un’immagine sinistra, l’ombra d’un uomo nerboruto e gigantesco.
E come dalle montagne s’ode il cupo rombo del tuono e i venti trascinano con sé il livido manto delle nubi che cala sulla pianura quale una valanga tumultuosa, così la sua voce cadeva dall’alto.

Mauro si destò improvvisamente dal sonno, sudato e tremante, e dopo alcuni minuti, quando scorse i primi raggi del sole penetrare nella stanza attraverso le fessure delle persiane, allora si rese conto che era stato tutto un sogno.

Allora affrontò la luce del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria di giochi femminili.
Più lontano gruppi di fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo cuore.
Continuò a camminare lungo la riva.
Un impulso insolito lo spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni, era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui, serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte, giovane e immortale.
E inerpicandosi per il sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini. Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia innitrendo.
La foresta si risvegliava. Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò. Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il volto?
Respirò profondamente. Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo, come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti, dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli uomini.
Potentemente e prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù, nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso, disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il cammino.
Più fitta era la vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della montagna.
E quando vi giunse, vide alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una ricchezza inattesa.
E il sole irradiava, splendido nella sua forza.
E a lui parve di trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita. Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del dio!
E guardò le nubi a occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
Ma tardo, al fine m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni, che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne anch’egli un puro elemento.


Nell’ombra smarrendosi, dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle vallate, sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù gracchiavano corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal grembo della montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e minacciose, e strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse fughe tra rami contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed inni di gioia selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle tenebre. Strane note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo, dalle macchie nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E il mare, selvaggio e crinito, urlava contro le rocce, laggiù nell’oscurità, a tratti inluminata dalla lampada notturna, quasi dietro le nubi frante sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava e sibilava, un tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta irta e biancastra, fluente chioma incolta.
Nel vago lamento sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un corteo sinuoso saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi silenzi avanzava, scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro ascendeva dai meandri di una stigia palude. Nel folto dei canneti echeggiava un uluco maligno. E il grido si mesceva al roco afflato delle onde perse.
E perso egli era nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo dilungantesi nel fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna esangue. Forse anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i grani purpurei della punica mela e a inghiottirli, per sempre nell’abisso della propria condanna ?
Rispose un nero tuono, e fremette vacillando come all’aprirsi d’un baratro sotto di lui.
La nebbia ribolliva intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e solidi sotto di lui, bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi oceani del cupo inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido, sparso di sassi come teste tronche di dannati.

Gli parve che il suo corpo immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso, una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva, pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore, quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso respiro glauco.
Era forse un angelo sorto dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano inutilmente.
Era la luna che l’aveva resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri. Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra i dirupi.
Aveva ella il potere di suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei sogni.
Così a lui apparve nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la luce.
Una barca lunga e nera, ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel tempo e nello spazio.



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