Appena i sommi monti
cospargeva del suo lume il giorno seguente, quando dall’alto gorgo
s’innalzarono i cavalli del Sole e soffiarono luce dall’enfiate
nari . E le onde pigramente si distendevano, pigramente si
ritraevano. Ma la tempesta di luce invase rapidamente l’orizzonte e
tutto in breve sommerse. Così nacque un nuovo giorno. E Mauro si
fermò sulla sabbia e guardò a lungo la distesa del mare.
La navicella era ormai
lontana, un’esile sagoma nera, seminascosta dalle rocce che
s’inoltravano nel mare profondo. Sul lido sinuoso, al riparo dalla
massa erta d’alberi tortuosi e di rupi, ove l’onda si cullava
mite e dormente, un pastore con gesti lenti e cauti smuoveva col suo
vincastro la sabbia a riva intorno a una reliquia d’un antico
naufragio. Più distanti, presso qualche cespo di giunco, le pecore
belavano timidamente.
Nel mattino dello stesso
giorno una navicella leggiadra era trascorsa vicino alla costa, colla
vela quadrata tutta variopinta e lunghi vessilli e canti e profumo di
fiori, e poi s’era dileguata carezzata da Zefiro nel corteggio di
Venere. Ma a riva aveva dimenticato i suoi sogni.
Il mormorìo di acque
croscianti fra i sassi lo colse mentre era intento all’alto mare, e
improvvisamente scorse quasi dietro di lui, dopo un cespo di giunchi,
la spuma d’una cascata, un rivo d’acqua piovana, che danzando in
vortici innumerevoli fluiva verso l’onda salsa e cupa. Ma
brillavano i fiotti del rivo innanzi all’alba, come un saluto, e
correvano verso la luce, gioiosi.
Ricordava. Mentre
passeggiava lungo la riva, l’immenso mare risonante gli alitava
contro l’umido fiato salso, i gabbiani gracchiavano volitanti. E
lui era perduto nella sua malinconia, e pensava gli anni non vissuti
e che mai nessuno avrebbe potuto vivere, tanto ricca e onnivora
sarebbe stata quella vita bruciante e ardente di desideri inespressi
e inesprimibili. Ed era il suo cuore quale una coppa di vino generoso
troppo colma che trabocca, e il suo contenuto si disperde e nessuno
osa portarla alle labbra, per timore di macchiarsi la veste. Così
egli rimaneva inerte, arso internamente da una fiamma destinata a
estinguersi, dopo avere distrutto ogni cosa.
Ma ora conosceva
finalmente la realtà. E quel mondo di sogni lussureggianti e
rutilanti quasi un’immensa foresta equatoriale invasa da voli di
migliaia di uccelli variopinti d’ogni specie e da miriadi di
insetti luccicanti e giganteschi e di farfalle dai vivi colori,
attingenti il nettare da corolle purpuree e iridescenti come gemme
splendide, e da orchidee inebrianti e mostruose, quel mondo s’era
rivelato di tanto superiore alla realtà quanto una meravigliosa
statua vince di grazia e di bellezza e d’eterna gioventù ogni
misero corpo caduco, il cui fiore svanisce al tramonto della
stagione.
E cos’era allora la
realtà ? Se analizzava la propria esistenza poteva osservare con un
vago senso di disgusto ch’essa era in effetti quanto di più
piatto, banale, ed in definitiva di basso e di volgare si potesse
immaginare. Perché la volgarità autentica sta tutta in quella
perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella
quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed
ottusi. Ed egli avvertiva quanto la massa degli uomini è senza
rimedio bassa e comune e come crogiolandosi in un’apparente vita
gioconda sguazzi lorda nel pantano compiaciuta, pari a una mandra di
bestie merdose e lubriche. E sebbene il tutto sia ammantato di belle
vesti e di monili luccicanti e di portamenti alteri o di frasi
timorate, o talvolta da atteggiamenti pieni di riverente decoro e di
sacerdotale saviezza, pure non si cessa d’avvertire con un senso di
sgomento l’impercettibile odore di cadavere che avvolge il mondo
“reale” degli uomini che nascono e muoiono a nugoli, come le
mosche.
Guardava il mare. Non più
spirava la brezza. Immoto esso si stendeva appena sciabordando contro
gli scogli. Si avvicinò alla riva. L'acqua era limpida, trasparente
come cristallo. La vampa del meriggio vi si posava in abbandono, il
cielo vi si rifletteva in un dolce oblio.
Ma ebbe innanzi agli occhi
il fluire delle estati trascorse e un vago sentore del profumo della
giovinezza. E gli parve di scorgere nell’effluvio salino del mare
la forma, l’ombra d’una donna che s’immergeva, che s’allungava
fra le onde dardeggiate dai raggi d’oro.
Ma ebbe il pungente
sentore dello scorrere del tempo attraverso il suo corpo, reso
stranamente più vecchio dalla consapevolezza del suo cammino
inarrestabile. Si sentiva una goccia di pioggia caduta dal cielo a
svanire nell’infinità dell’oceano. E non era un destino di
morte. Era la stessa vita che, attimo dopo attimo, lo sottraeva a se
stesso, lo immergeva in un torpore pari all’oblio, quell’oblio
che è tutto della coscienza e ci rende stranieri a noi stessi per
sempre. A che vivere ? Era forse questa la vita che si era augurato
nelle fantasticherie dell’adolescenza ? Forse se avesse saputo
allora che era proprio questa, non avrebbe desiderato di continuarla
un attimo di più. Ma certamente prima o poi la sua vista sarebbe
stata liberata dall’inganno del velo di Maya ed egli avrebbe avuto
la rivelazione che pone fine ad ogni sofferenza come ad ogni
desiderio. Così sarebbe stato, poiché tutto è illusione.
Vagamente ricordava
l’immagine del poeta, e, se avesse potuto averne il libro tra le
mani, avrebbe riletto i versi seguenti :
“ Era la vita. Dopo il
moto alterno
d’un’onda sola che
salìa cantando,
scendea scrosciando,
mormorava il mare
immobilmente. E molte vite
in fila
salìan dal mare
riscendean nel mare :
quindi l’eterno. E
dall’eterno altre onde :
i figli. Altre onde
dall’eterno : i figli
dei figli. E onde e onde,
e onde e onde … “
Così s’allontanava
anch’egli sulla riva del mare. E incamminandosi per le dune
sabbiose e tra brulli cespi di giunchi, la sua sagoma si stagliava
oscura contro il sole, un’ombra triste, debole. Dov’erano le
fanciulle d’un giorno ? Dove le illusioni dell’immaginazione
ancora ingenua, non ancora intaccata dal sentore di morte ?
Ma quelle illusioni non
erano solo le sue, sarebbero state le illusioni di tanti nel tempo a
venire, un giorno più bello di altri. Tutto passa, scorre e ritorna,
come un ruscello nel mare che riconduce l’acqua delle piogge
generate dagli stessi vapori del mare. Tutto muore, perché dunque
lamentarsi ? Compiuto un ciclo ne inizia un altro e così la storia
continua. Chi può dire se vivremo ancora, chi può dire se siamo già
vissuti ?
Una voce sorgeva
dall’abisso della coscienza, gli diceva : “ Accetta il
destino, solo così sarai liberato nell’abbraccio della morte “.
Ma quando discese, per
l’ennesima volta, il disco del sole oltre le acque violacee
dell’orizzonte, allora nell’atmosfera bluastra lo avvolse il
solito misterioso torpore, ed egli rivide nel breve spazio di qualche
minuto la propria monotona esistenza scandita nei ritmi del
metabolismo suo e cosmico, invariabile come i variabili giorni che
nell’apparente mutevolezza sempre trascorrono all’uniforme tocco
del tempo.
E si sentì pervaso dal
gelo dell’eternità, in un brivido dell’epidermide, una
sensazione di bruto, priva di consapevolezza e perciò terribile. E,
mentre gli si arrestava il sangue e si annebbiava la vista e gli
pareva che le tempie fossero immerse in un’acqua fredda, avvertì
il silenzio dell’infinito e pure l’immobile, strano a dirsi,
corsa dei pianeti, e una mano di ghiaccio gli strinse il cuore.
E nel manto infinito del
crepuscolo egli scorse la lunga ombra degli esseri già avvolti dalla
tenebra, lamentosamente precipitarsi nella morte. Egli scorse il
corteo funebre degli eroi, rigidi sul catafalco, tra le fiaccole e
gli inni della gloria, e vide i loro roghi splendidi sul mare.
Considerò allora la propria vita non più lunga d’un giorno,
destinata a svanire in una eterna notte. E il dèmone lo invase,
implacabile. Il dèmone della distruzione, dell’offerta votiva del
sangue, il dèmone che ha sete e brama il sangue schiumante delle
vittime svenate. Il volto s’irrigidì, non più svelò alcun
sentimento umano. Ah, questo era dunque il retaggio della solitudine,
dell’abbandono, un immenso, bruciante, infecondo deserto di sabbia
e di tormentosi venti omicidi.
Ma quei venti non erano
forse il respiro incessante dell’Essere, della Vita incoercibile,
ah, certo, d’un dèmone assai più potente degli uomini. Terribile,
questo dio circondato di belve possiede certo i segreti
dell’esistenza, e ogni forza con assoluto potere sprigiona e
domina.
Oh, quanto vanamente
l’uomo crede o spera di poter domare quell’Essere ! Tanto è più
grande e più forte di lui che tutta la vita degli uomini sembra un
racconto la cui trama dipenda dal capriccio d’un sempre
insoddisfatto scrittore, Egli mira per le Sue vie e le Sue ragioni
stanno spesso negli intoppi della Sua penna. E l’uomo s’illude di
governarsi con la ragione, quando questa non è che una scusa con la
quale far tacere una buona volta il pungolo della fastidiosa
ignoranza.
Tuttavia una strana calma
sopraggiungeva. La calma dell’indifferenza, la quiete della
sconfitta, della resa definitiva. Scopriva a poco a poco che per
vivere ogni giorno doveva ogni giorno morire e lentamente staccarsi
dalla vita. Doveva separarsi da ogni affetto, da ogni desiderio,
serbarsi immoto e imperturbabile come una statua di granito,
altrimenti come un frutto troppo maturo sarebbe marcito ancora
attaccato al ramo. Doveva per vivere, vivere morto.
Ebbe sopra di lui la
sensazione di un influsso maligno, era posseduto da un torpore
malsano, da un innaturale desiderio di sonno, di oblio. Ricordava i
discorsi delle persone volgari che un tempo lo avevano consolato e
incitato alla vita, e quale vita ? La loro ? Ma se erano già morti
da tempo e non se n’erano neppure accorti !
Siamo davvero dei bambini
illusi che presumono di sapere qualcosa e invece non sanno nulla.
Quanti discorsi tronfi, quante arie di importanza ! Imbecilli, che
esprimono con sussiego tanto quanto è il vuoto del loro cervello.
E pensò allora a una
strofa del Canto dell’Illuminato : “ Chi, essendo soggetto a
morte, malattia e vecchiaia, trova diletto in chi è a sua volta
partecipe di morte, malattia e vecchiaia, e non se ne turba, è pari
alle bestie e agli uccelli. “
Mentre tornava alla villa
lo assalse improvvisa l’angoscia, il senso profondo di solitudine e
d’abbandono. Lo strinse implacabile alla gola, lo piegò quasi su
se stesso, sì che gli pareva non poter più sostenere il peso dei
ricordi. La sua vita era insopportabile ! Il suo essere medesimo gli
era alieno, e un invincibile disgusto s’impossessava di lui come
una mania che la volontà non domina.
Affranto, disorientato e
smarrito percorreva il sentiero ghiaioso nervosamente e per qualche
tratto correndo, inutilmente volendo sfuggire all’assillo.
E quando giunse nelle
vicinanze del giardino, udì voci allegre di fanciulle che
echeggiavano nei meandri intrecciatisi fra le piante secolari e
frementi.
Colse nell’affanno
un’onda di respiro silvestre, profumata di rose, di mirto e di
resine. Si fermò, ebbro. Udiva le voci risuonare nell’aria. Il
crepuscolo effondeva i suoi bagliori purpurei fra le membra degli
alberi ondeggianti alla brezza. La villa era ormai una sagoma oscura
tra i rami. Le voci divenivano più fioche. S’allontavano verso
l’edificio.
Oltrepassato il cancello
egli ne colse ancora l’incanto diffuso nel verde labirinto. Si
sentì pervadere dal desiderio. Vide il getto schiumante della
fontana dell’antico delfino e respirò un fresco e intenso odore di
muschio e di foglie putrescenti. La sera lo ammaliava con soave
sentore di morte. L’orlo del laghetto era circondato da cespugli
rosseggianti di belledinotte che in quell’ora schiudevano le
corolle.
Egli s’inoltrò nel
buio, sotto gli eucalipti, e avanzò lentamente, un’anima perduta.
Immaginò di scorgerla, di incontrarla nel giardino. Gli appariva il
suo viso, pallido ai raggi della luna sorgente, coronato dai capelli
misteriosamente neri come la notte. Immaginò ch’ella lo osservasse
intensamente e che la luce degli occhi le variasse in ogni istante,
pari al scintillare delle onde sotto le stelle. Sognava
d’abbracciarla, di tenerla, d’essere invaso dal suo profumo,
dalla sua bellezza.
Ma aveva innanzi a sé
null’altro che l’ombra del proprio corpo, percettibile appena al
chiarore del crepuscolo, un’ombra che s’allungava e si perdeva
nell’ombra degli alti alberi.
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