sabato 6 dicembre 2014

Misandra, cap. 20

Appena i sommi monti cospargeva del suo lume il giorno seguente, quando dall’alto gorgo s’innalzarono i cavalli del Sole e soffiarono luce dall’enfiate nari . E le onde pigramente si distendevano, pigramente si ritraevano. Ma la tempesta di luce invase rapidamente l’orizzonte e tutto in breve sommerse. Così nacque un nuovo giorno. E Mauro si fermò sulla sabbia e guardò a lungo la distesa del mare.
La navicella era ormai lontana, un’esile sagoma nera, seminascosta dalle rocce che s’inoltravano nel mare profondo. Sul lido sinuoso, al riparo dalla massa erta d’alberi tortuosi e di rupi, ove l’onda si cullava mite e dormente, un pastore con gesti lenti e cauti smuoveva col suo vincastro la sabbia a riva intorno a una reliquia d’un antico naufragio. Più distanti, presso qualche cespo di giunco, le pecore belavano timidamente.
Nel mattino dello stesso giorno una navicella leggiadra era trascorsa vicino alla costa, colla vela quadrata tutta variopinta e lunghi vessilli e canti e profumo di fiori, e poi s’era dileguata carezzata da Zefiro nel corteggio di Venere. Ma a riva aveva dimenticato i suoi sogni.
Il mormorìo di acque croscianti fra i sassi lo colse mentre era intento all’alto mare, e improvvisamente scorse quasi dietro di lui, dopo un cespo di giunchi, la spuma d’una cascata, un rivo d’acqua piovana, che danzando in vortici innumerevoli fluiva verso l’onda salsa e cupa. Ma brillavano i fiotti del rivo innanzi all’alba, come un saluto, e correvano verso la luce, gioiosi.
Ricordava. Mentre passeggiava lungo la riva, l’immenso mare risonante gli alitava contro l’umido fiato salso, i gabbiani gracchiavano volitanti. E lui era perduto nella sua malinconia, e pensava gli anni non vissuti e che mai nessuno avrebbe potuto vivere, tanto ricca e onnivora sarebbe stata quella vita bruciante e ardente di desideri inespressi e inesprimibili. Ed era il suo cuore quale una coppa di vino generoso troppo colma che trabocca, e il suo contenuto si disperde e nessuno osa portarla alle labbra, per timore di macchiarsi la veste. Così egli rimaneva inerte, arso internamente da una fiamma destinata a estinguersi, dopo avere distrutto ogni cosa.
Ma ora conosceva finalmente la realtà. E quel mondo di sogni lussureggianti e rutilanti quasi un’immensa foresta equatoriale invasa da voli di migliaia di uccelli variopinti d’ogni specie e da miriadi di insetti luccicanti e giganteschi e di farfalle dai vivi colori, attingenti il nettare da corolle purpuree e iridescenti come gemme splendide, e da orchidee inebrianti e mostruose, quel mondo s’era rivelato di tanto superiore alla realtà quanto una meravigliosa statua vince di grazia e di bellezza e d’eterna gioventù ogni misero corpo caduco, il cui fiore svanisce al tramonto della stagione.
E cos’era allora la realtà ? Se analizzava la propria esistenza poteva osservare con un vago senso di disgusto ch’essa era in effetti quanto di più piatto, banale, ed in definitiva di basso e di volgare si potesse immaginare. Perché la volgarità autentica sta tutta in quella perdita volontaria di immaginazione, in quell’immergersi nella quotidianità che rende inevitabilmente limitati, anonimi, vuoti ed ottusi. Ed egli avvertiva quanto la massa degli uomini è senza rimedio bassa e comune e come crogiolandosi in un’apparente vita gioconda sguazzi lorda nel pantano compiaciuta, pari a una mandra di bestie merdose e lubriche. E sebbene il tutto sia ammantato di belle vesti e di monili luccicanti e di portamenti alteri o di frasi timorate, o talvolta da atteggiamenti pieni di riverente decoro e di sacerdotale saviezza, pure non si cessa d’avvertire con un senso di sgomento l’impercettibile odore di cadavere che avvolge il mondo “reale” degli uomini che nascono e muoiono a nugoli, come le mosche.
Guardava il mare. Non più spirava la brezza. Immoto esso si stendeva appena sciabordando contro gli scogli. Si avvicinò alla riva. L'acqua era limpida, trasparente come cristallo. La vampa del meriggio vi si posava in abbandono, il cielo vi si rifletteva in un dolce oblio.
Ma ebbe innanzi agli occhi il fluire delle estati trascorse e un vago sentore del profumo della giovinezza. E gli parve di scorgere nell’effluvio salino del mare la forma, l’ombra d’una donna che s’immergeva, che s’allungava fra le onde dardeggiate dai raggi d’oro.
Ma ebbe il pungente sentore dello scorrere del tempo attraverso il suo corpo, reso stranamente più vecchio dalla consapevolezza del suo cammino inarrestabile. Si sentiva una goccia di pioggia caduta dal cielo a svanire nell’infinità dell’oceano. E non era un destino di morte. Era la stessa vita che, attimo dopo attimo, lo sottraeva a se stesso, lo immergeva in un torpore pari all’oblio, quell’oblio che è tutto della coscienza e ci rende stranieri a noi stessi per sempre. A che vivere ? Era forse questa la vita che si era augurato nelle fantasticherie dell’adolescenza ? Forse se avesse saputo allora che era proprio questa, non avrebbe desiderato di continuarla un attimo di più. Ma certamente prima o poi la sua vista sarebbe stata liberata dall’inganno del velo di Maya ed egli avrebbe avuto la rivelazione che pone fine ad ogni sofferenza come ad ogni desiderio. Così sarebbe stato, poiché tutto è illusione.
Vagamente ricordava l’immagine del poeta, e, se avesse potuto averne il libro tra le mani, avrebbe riletto i versi seguenti :

Era la vita. Dopo il moto alterno
d’un’onda sola che salìa cantando,
scendea scrosciando, mormorava il mare
immobilmente. E molte vite in fila
salìan dal mare riscendean nel mare :
quindi l’eterno. E dall’eterno altre onde :
i figli. Altre onde dall’eterno : i figli
dei figli. E onde e onde, e onde e onde … “

Così s’allontanava anch’egli sulla riva del mare. E incamminandosi per le dune sabbiose e tra brulli cespi di giunchi, la sua sagoma si stagliava oscura contro il sole, un’ombra triste, debole. Dov’erano le fanciulle d’un giorno ? Dove le illusioni dell’immaginazione ancora ingenua, non ancora intaccata dal sentore di morte ?
Ma quelle illusioni non erano solo le sue, sarebbero state le illusioni di tanti nel tempo a venire, un giorno più bello di altri. Tutto passa, scorre e ritorna, come un ruscello nel mare che riconduce l’acqua delle piogge generate dagli stessi vapori del mare. Tutto muore, perché dunque lamentarsi ? Compiuto un ciclo ne inizia un altro e così la storia continua. Chi può dire se vivremo ancora, chi può dire se siamo già vissuti ?
Una voce sorgeva dall’abisso della coscienza, gli diceva : “ Accetta il destino, solo così sarai liberato nell’abbraccio della morte “.
Ma quando discese, per l’ennesima volta, il disco del sole oltre le acque violacee dell’orizzonte, allora nell’atmosfera bluastra lo avvolse il solito misterioso torpore, ed egli rivide nel breve spazio di qualche minuto la propria monotona esistenza scandita nei ritmi del metabolismo suo e cosmico, invariabile come i variabili giorni che nell’apparente mutevolezza sempre trascorrono all’uniforme tocco del tempo.
E si sentì pervaso dal gelo dell’eternità, in un brivido dell’epidermide, una sensazione di bruto, priva di consapevolezza e perciò terribile. E, mentre gli si arrestava il sangue e si annebbiava la vista e gli pareva che le tempie fossero immerse in un’acqua fredda, avvertì il silenzio dell’infinito e pure l’immobile, strano a dirsi, corsa dei pianeti, e una mano di ghiaccio gli strinse il cuore.
E nel manto infinito del crepuscolo egli scorse la lunga ombra degli esseri già avvolti dalla tenebra, lamentosamente precipitarsi nella morte. Egli scorse il corteo funebre degli eroi, rigidi sul catafalco, tra le fiaccole e gli inni della gloria, e vide i loro roghi splendidi sul mare. Considerò allora la propria vita non più lunga d’un giorno, destinata a svanire in una eterna notte. E il dèmone lo invase, implacabile. Il dèmone della distruzione, dell’offerta votiva del sangue, il dèmone che ha sete e brama il sangue schiumante delle vittime svenate. Il volto s’irrigidì, non più svelò alcun sentimento umano. Ah, questo era dunque il retaggio della solitudine, dell’abbandono, un immenso, bruciante, infecondo deserto di sabbia e di tormentosi venti omicidi.
Ma quei venti non erano forse il respiro incessante dell’Essere, della Vita incoercibile, ah, certo, d’un dèmone assai più potente degli uomini. Terribile, questo dio circondato di belve possiede certo i segreti dell’esistenza, e ogni forza con assoluto potere sprigiona e domina.
Oh, quanto vanamente l’uomo crede o spera di poter domare quell’Essere ! Tanto è più grande e più forte di lui che tutta la vita degli uomini sembra un racconto la cui trama dipenda dal capriccio d’un sempre insoddisfatto scrittore, Egli mira per le Sue vie e le Sue ragioni stanno spesso negli intoppi della Sua penna. E l’uomo s’illude di governarsi con la ragione, quando questa non è che una scusa con la quale far tacere una buona volta il pungolo della fastidiosa ignoranza.
Tuttavia una strana calma sopraggiungeva. La calma dell’indifferenza, la quiete della sconfitta, della resa definitiva. Scopriva a poco a poco che per vivere ogni giorno doveva ogni giorno morire e lentamente staccarsi dalla vita. Doveva separarsi da ogni affetto, da ogni desiderio, serbarsi immoto e imperturbabile come una statua di granito, altrimenti come un frutto troppo maturo sarebbe marcito ancora attaccato al ramo. Doveva per vivere, vivere morto.
Ebbe sopra di lui la sensazione di un influsso maligno, era posseduto da un torpore malsano, da un innaturale desiderio di sonno, di oblio. Ricordava i discorsi delle persone volgari che un tempo lo avevano consolato e incitato alla vita, e quale vita ? La loro ? Ma se erano già morti da tempo e non se n’erano neppure accorti !
Siamo davvero dei bambini illusi che presumono di sapere qualcosa e invece non sanno nulla. Quanti discorsi tronfi, quante arie di importanza ! Imbecilli, che esprimono con sussiego tanto quanto è il vuoto del loro cervello.
E pensò allora a una strofa del Canto dell’Illuminato : “ Chi, essendo soggetto a morte, malattia e vecchiaia, trova diletto in chi è a sua volta partecipe di morte, malattia e vecchiaia, e non se ne turba, è pari alle bestie e agli uccelli. “

Mentre tornava alla villa lo assalse improvvisa l’angoscia, il senso profondo di solitudine e d’abbandono. Lo strinse implacabile alla gola, lo piegò quasi su se stesso, sì che gli pareva non poter più sostenere il peso dei ricordi. La sua vita era insopportabile ! Il suo essere medesimo gli era alieno, e un invincibile disgusto s’impossessava di lui come una mania che la volontà non domina.
Affranto, disorientato e smarrito percorreva il sentiero ghiaioso nervosamente e per qualche tratto correndo, inutilmente volendo sfuggire all’assillo.
E quando giunse nelle vicinanze del giardino, udì voci allegre di fanciulle che echeggiavano nei meandri intrecciatisi fra le piante secolari e frementi.
Colse nell’affanno un’onda di respiro silvestre, profumata di rose, di mirto e di resine. Si fermò, ebbro. Udiva le voci risuonare nell’aria. Il crepuscolo effondeva i suoi bagliori purpurei fra le membra degli alberi ondeggianti alla brezza. La villa era ormai una sagoma oscura tra i rami. Le voci divenivano più fioche. S’allontavano verso l’edificio.
Oltrepassato il cancello egli ne colse ancora l’incanto diffuso nel verde labirinto. Si sentì pervadere dal desiderio. Vide il getto schiumante della fontana dell’antico delfino e respirò un fresco e intenso odore di muschio e di foglie putrescenti. La sera lo ammaliava con soave sentore di morte. L’orlo del laghetto era circondato da cespugli rosseggianti di belledinotte che in quell’ora schiudevano le corolle.
Egli s’inoltrò nel buio, sotto gli eucalipti, e avanzò lentamente, un’anima perduta. Immaginò di scorgerla, di incontrarla nel giardino. Gli appariva il suo viso, pallido ai raggi della luna sorgente, coronato dai capelli misteriosamente neri come la notte. Immaginò ch’ella lo osservasse intensamente e che la luce degli occhi le variasse in ogni istante, pari al scintillare delle onde sotto le stelle. Sognava d’abbracciarla, di tenerla, d’essere invaso dal suo profumo, dalla sua bellezza.
Ma aveva innanzi a sé null’altro che l’ombra del proprio corpo, percettibile appena al chiarore del crepuscolo, un’ombra che s’allungava e si perdeva nell’ombra degli alti alberi.



Nessun commento:

Posta un commento