domenica 14 dicembre 2014

Misandra, cap. 21





Alla finestra della propria stanza coglieva, con il trapassare del giorno in lunghi lembi violacei come il sangue del sole, la luce lunare sul volto immobile. Immaginava che oltre l’orizzonte si fosse scatenata l’orrenda battaglia degli dei e dei giganti e ne crollasse l’universo, così come si narrava nei canti barbarici, e il suo cuore si nutriva di una strana voluttà. Una musica a lui nota sorgeva dalla profondità del ricordo e fantasie colme di ebbrezza tornavano ad agitarsi nella sua mente. Ma insieme tutta la massa delle memorie arrivava, ahimé, non perdute, e lo circondava con volti noti e misteriosi.
Intuiva l’abisso della coscienza, e che affacciarsi sul baratro significasse sfidare temerariamente le proprie forze.
La folta vegetazione del giardino era mossa dai sussulti di un vento caldo. Un greve sentore, un torpore sconosciuto proveniva dal fondo del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì dal piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese sortì dal suo letto di fiori. Quale trillo di sonagliere che preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto, lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente spirava sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute chiome ondeggianti parimente al mantello, che morbidamente ricadeva sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il collo possente su cui la criniera fluttuava. Il volto del cavaliere era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere della sera. Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino, alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne. Un candido Pègaso aleggiava intorno con le ali dalle penne di fiamma, che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino. Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Attorno al suo corpo, pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e libravano le dita sottili sovra antichi strumenti a corda, strani quali le parole dell’inno. L’astro, come un dio onnipotente che rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il capo innanzi al mondo.
E il mare era ormai un’immensa distesa oscura, solo riconoscibile dal rantolo roco. Ma in quel rumore pareva salire una rabbia repressa e avvolgersi in spire crescenti. E una passione non mai soddisfatta, non mai consolata si piegava su se stessa, contorcendosi, fremendo, piangendo, urlando. E i legami del furore s’avvinghiavano in reti vorticose, inghiottivano ogni speranza nei gorghi lividi, mentre il vento fischiava, ululava impazzito. Le onde s’aggrovigliavano in schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse abbrancando il vento alla cieca sotto il vano lume delle stelle, mentre le tenebre velavano ogni elemento mobile e mutevole quale un nero vapore sul mare insondabile.
Con un suono di dischi d’argento o di cristalli infranti le onde si schiantavano le une contro le altre come i rami agitati di un’immensa foresta preda del turbine. Nere come chiome invase dal fiato furente dell’aria si levavano e si prolungavano indefinitamente verso l’orizzonte e verso le rocce del lido s’impennavano caparbie e ostili, lunghi capelli neri fluttuanti.

Mauro non poteva dormire. L’angoscia aveva preso il sopravvento. Un’oppressione insopportabile lo costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi alla finestra. La aperse e per alcuni istanti respirò profondamente l’aria balsamica della notte. Poi i suoi occhi s’immersero nell’oscurità, a contemplare in alto la luce gialla delle stelle e nel giardino le corolle grigiastre dei fiori, ormai insignificanti. Udiva il mormorio della fontana nel silenzio profondo e gli pareva volesse rivelare qualche segreto. Volse lo sguardo intorno, ma il resto della casa era al buio. Solo una stanza pareva ancora illuminata. Era la portafinestra della camera di Misandra, che dava sul balcone. Aveva le tende accostate alle pareti si che poteva agevolmente scorgersi l’interno. Tra gli armadi neri spiccava il letto bianco. Due figure v’erano distese, la cui nudità levigata rifletteva la luce della luna come le morbide corolle dei tulipani o le curve delicate delle ceramiche colme di fiori.

Ella accolse l’amata tra le sue braccia e le sfiorò con la punta delle dita la bella schiena rosea che i raggi della luna accarezzavano. Le ombre giocavano con le sue dita, lunghe e sottili, e, risalendo alla chioma nera come la notte, si confondevano coi capelli seguendo il moto fluido delle mani.
Ella depose un bacio sulla nuca dell’amata che si adagiava, vinta dal sonno, sui cuscini. Ergendosi, discese dal letto, nuda e bianca. Era magra e levigata come marmo vivente. Le lunghe gambe, i fianchi eleganti innalzavano il ventre sottile e il busto su cui sbocciavano i piccoli fiori violacei e delicati, un collo candido, l’opale del viso ancora nella penombra del capo, uno scintillare di pupille mobili. La luce e l’ombra s’alternavano sul profilo cangiante della sua nudità, che pareva, nel buio della stanza, essere l’anima furtiva della notte.
Con rapide movenze spalancò la finestra. La stanza accolse l’onda carezzevole della luce lunare. Ella se ne stava in piedi avvolta dai raggi d’argento, quasi una ninfa del mare che esce dall’acque, per essere scorta dal pescatore ancora assonnato sovra la barca dondolante sulla scintillante e violacea distesa. E la sua sagoma si rifletteva nello specchio della vasca marmorea del giardino sottostante, della fontana ove l’acqua susurrava in ritmi d’onde nate nel gorgoglìo delle spume dai getti lattei delle cornucopie. Nel flutto l’immagine sua s’allungava e si perdeva nel fluido incanto di lire e di flauti, fondendosi con i fiori delle ninfee e intorno nel profumo delle piante mormoranti.
Mauro assisteva alla scena da una finestra di fronte, all’altro lato del chiostro. Ogni cosa aveva veduto e nulla gli era ormai ignoto. Immobile rimaneva nell’ombra, come un’insidia. Ed ella, pur non potendo scorgerlo, guardava proprio verso di lui, insistentemente, sicuramente ignara, e le sue pupille parevano riflettere i giochi di luce della fontana e baluginare sinistre fra i vapori della notte.
La luna splendeva alta, d’una luce fulva, un ampio specchio ovale dov’erano racchiusi i misteri notturni, che ora venivano svelati, essendosi essa dischiusa come un grande occhio.
Il disco d’ambra sovra il mare irradiava l’incantesimo tra la folta vegetazione dei boschi, serpeggiava la sua malìa fra le fronde scure e palpitanti del giardino, abbracciando i tronchi, vellicando le foglie, insinuandosi nei fiori.
Allora gli parve scorgere, nell’abbraccio delle tenebre, discendere nell’ignota oscurità una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste del mare nel fragore dei venti contrastanti coronata degli astri sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori procombeva sopra il suo corpo argenteo. Era sollevata dall’onda furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e con fredde mani reggeva il papavero rosso dell’oblio, che baciava con languide labbra. Sotto di lei fluiva l’eterno fiume d’oro, d’improvviso fiorendo ad un sole occiduo in cerchi roteanti e barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e innervandosi in trame e rabeschi e in rinnovate cateratte frementi. Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire i campi di grano e nuove speranze e forze nuove d’esseri avidi d’esistere. Consapevole del suo potere risuona tumultuante il sacro bosco, e delle vittime offerte le ceneri vengono sparse sulle terre da arare, poi che ogni cosa finisce e rinasce nel medesimo modo e dal seme di vita cresce la morte.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?

Sul balcone era buio. La luce era scomparsa. Mauro uscì dalla stanza. Era inebriato, esaltato e nel contempo invaso da ignote furie e perciò si diresse inconsciamente verso il luogo dell’apparizione.
La porta dell’appartamento di Misandra era stranamente aperta. Entrava, errava per sale silenziose, il cui soffitto a lacunari era molto alto e l’ambiente pervaso da un lume vermiglio che svelava le oblunghe finestre gotiche e finiva sopra i pesanti arazzi che pendevano dalle pareti. Libri e strumenti a corda e flauti erano sparsi dovunque su cassepanche, tavoli e savonarole. L’eco dei suoi passi era l’unico rumore a fargli compagnia. Un grande candelabro era posto sopra un pianoforte. La luce vagava fra le ombre.

La luce era nell’altra camera.
Egli entrò, inondato dalla luce degli specchi, mentre la donna, apparentemente, dormiva sul grande letto bianco. Si curvò sopra di lei e ascoltò, avvicinando al suo seno l’orecchio. Non udiva il battito del suo cuore.
Io non sono vivente “ gli parve sentire. Si voltò improvvisamente.
La crisalide lignea era là, in piedi, e gli sorrideva maligna, identica alla donna distesa e similmente vestita. Lo guardava fissamente, e i suoi occhi si muovevano come gli occhi delle bambole meccaniche.
Un’ira inesorabile, cupa, devastante invase la sua mente in un’improvvisa eclissi del lume della ragione. Barcollante si diresse verso la porta e corse via, in preda a un sudore gelido. Le sue pupille si dilatavano nel buio della notte, egli voleva vedere oltre l’orizzonte della sua mente, ma era impossibile.





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