domenica 21 dicembre 2014

Misandra, cap. 22





Al mattino si svegliò in preda a una estenuazione nervosa. S’alzò, si vestì e corse sul balcone ai raggi del nuovo giorno.
Il cielo era limpido, una lieve brezza spirava sulle onde, e soltanto una lunga nube si disegnava verso il promontorio e sopra il mare, bianca e sottile. Le gazze gracchiavano volando di ramo in ramo, sugli ulivi ondeggianti al venticello, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Era lo scenario ideale per l’artista che avesse potuto coglierlo e disporlo sulla tela, e questo certo fu il primo pensiero di Mauro. Ma la bellezza che circonda l’uomo lo trova non tanto indifferente quanto spesso inetto a comprenderla e tanto più a imitarla.
Uscì dalla stanza, dirigendosi verso la spiaggia. Prese la via più breve, per la breccia nell’alto muro del giardino. Quasi muraglia d’una città vetusta i blocchi di pietre erano smossi e abbattuti nel luogo più remoto, tra gli eucalipti e le canne, e si poteva passare fra le grandi pietre disposte a secco come le rocche dei tempi eroici.
Le onde dolcemente si stendevano sul lido sabbioso e sembravano voler lambire i cespugli dei giunchi e giungere sino ai pini e agli alti eucalipti. Sui colli verdeggiava brillante la gran selva della terra corsa dai raggi vivaci.
Verdi sotto il sole le onde dileguavano, quale eco di canti fra le montagne. Un murmure alterno tra le fronde afflava e insieme alle foglie carezzava i suoi capelli.
Come lo invitavano le rive solcate dal flusso, egli depose i suoi panni ed entrò a poco a poco nel grembo delle varie scintille. La corrente fresca lo avvolse, ed egli si slanciò proiettando sul fondo la sua ombra fluente. Si sentì rapito dalla profondità, dalle rocce e dai pesci che sfrecciavano in branco. Ma la necessità del respiro lo trasse a squarciare il vello ondoso, a mordere l’aria. L’insidia gli era accanto e lo blandiva. La paura rapidamente lo spronò alla riva ed egli placò fra i giunchi il turbamento, e la stanchezza cogliendolo stornò i ricordi dei sentimenti convulsi. Il torpore e il tremolio delle correnti lo trasse serpeggiando tra sporgenze di madreperla, candide e rosee.
Una torre a spirale culminava in una cupola irregolare e lucente di linee occhiute e di bizzarri arabeschi, e rilievi smeraldini ed eburnei quasi orli arcuati di pagode ornavano il palazzo immenso. La porta ovale d’una colossale conchiglia albicava al pari dell’ambra. L’interno abbagliava di bracieri e stordiva d’incenso. Ciclopiche statue di divinità indù troneggiavano in un’espressione di beatitudine indifferente e innanzi a loro su alti tripodi bruciavano le offerte. Mostri di basalto digrignavano le zanne ai lati oscurati dalle colonne rivestite di serpi, sorrette da elefanti marmorei. Nell’alto, un vortice alla vista, la cupola gigantesca si perdeva, insondabile, avvolgendosi quale torre di Babele e risuonando delle strida dei corvi.
Su cuscini color rubino una donna con dita leggere sfiorava il contorno dei seni e un serpente strisciava oscillando fra le sue caviglie, il capo eretto e gli occhi come fiammelle. Ma oltre gli si negò il sogno, un libro chiuso.

Tutto era dunque perduto per sempre.
Era tempo di partire.
Preparò le sue cose in fretta e uscendo dalla villa rivolse per qualche minuto lo sguardo a considerarne il fascino e la misteriosa bellezza. Tre ampie cupole la sovrastavano coperte di lastre grigie, poggiando su un’architettura in stile floreale, muri e colonnati e travi d’un color giallo sabbioso. Attorno l’ampio parco la coronava della sua fronda lussureggiante di cedri del Libano, palme, pini, eucalipti. Si scorgevano in volo le gazze e s’udivano i merli cantare vivaci e fantasiosi fra i cespugli. Bisognava andare.

Mentre egli saliva il sentiero della montagna, e il suo cuore si ostinava a salire, vide levarsi del vapore misto a brandelli di arso fogliame. Non comprendeva donde provenisse quel monito. Quando giunse alla meta cui il suo cuore anelava e fu nella radura radiosa sotto l’ombra degli alti pini dove frinivano le cicale nell’ora sacra al grande dio Pan, allora s’accorse che il sentiero che aveva percorso era minacciato da voraci lembi di fuoco che crepitavano e crescevano e colmavano il cielo in un ampio boato. Tentò quindi di scendere per il sentiero e di tornare, ma le fiamme, ormai molto elevate, stavano già divorando gli alberi sulla via e i cespi di ginestra selvatica.
Il vento rinforzava, empiendo le lingue vermiglie, vaste vele correnti sovra la selva arida. L’incendio saliva velocissimo, un’ondata rombante, inondando il versante del monte in forma d’un braciere inesausto.
Egli si vide perduto, e si precipitò in corsa, ansimando, in preda al panico. Ma poi scorse una via di scampo che conduceva ad un altro pendio della montagna. Non cessò di correre, poi che le fiamme incalzavano. E tuttavia gli parve d’essere pervaso anch’egli da quelle fiamme cui sfuggiva in un balzo d’agile animale, e che quelle fiamme così alte e terrificanti e onnipotenti gli trasmettessero la propria forza e la vigoria della divinità.
E quando fu in salvo per un altro sentiero, dopo una corsa ansiosa, e si volse a contemplare le torri di fumo denso e rossastro che empivano il cielo quasi estese nubi di tempesta, capì che per lui erano sorte e da quelle era stato purificato, ostia risparmiata dal sacrificio, e un dio gli aveva offerto quella gioia, serbata ai pochi, di sentirsi così vicino alla morte.
Egli vide sollevarsi sovra la montagna la corsa del dio vittorioso e il suo destriero splendido di crini accesi, asceso dalla terra alle folgori della tempesta, e il suo volto si perdeva nel cielo.
Nell’ebbrezza ebbe la triste sorpresa. Nel rogo immane era avvolta la villa di Misandra. Un fumo denso saliva al cielo e si scorgevano le mura nerastre, ormai prive del tetto.
Qual era stata dunque la sorte di Misandra ? Ormai era troppo lontano per saperlo, il suo cammino non gli permetteva il ritorno e il fuoco ancora crepitava per tutto il versante della montagna.
Ne avrebbe avuto notizia, ma troppo tardi.
Continuò dunque a camminare e arrivò in una radura dove sorgeva un riparo di pastore, tutto di pietre a secco.
Era quasi il tramonto. Un vecchio era l’unica presenza umana.
Come una scintillazione di rapida vita gli esultò d’un tratto nel corpo. Gli si dilatò l’anima dentro con impeto com’era giunto al vertice del colle, e gli ulivi ad ondate grigie si stendevano sotto di lui. Si sentì partecipe della sicura quiete delle cose viventi, respirò l’aria, strinse con la mano un tronco ruvido d’ulivo.
Stava il vecchio innanzi alla visione del mondo.
Era seduto a margine della strada, con un bastone in mano, l’aria tranquilla. Guardava di fronte a sé l’estesa catena delle montagne illuminate dal sole.
Così, mentre passava, egli vide un vecchio e s’immedesimò in lui. E gli parve essere ai confini della vita, innanzi alla vista immensa delle esistenze passate e future. Come se attraverso le fibre del corpo filtrassero gli aneliti di tutte le vite umane, sentì nell’attimo la rivelazione. In lui trascorreva l’eterno divenire, in lui trascorso avrebbe continuato il suo fluire in altre forme, in altre esistenze.
Lo ammoniva il vecchio, gli diceva con lo sguardo : “ Accetta il destino “. Ed egli abbassò il capo.
Una sensazione opprimente stringeva come una morsa le tempie e il suo cuore. Ma nel silenzio, un gelido manto, ecco un’idea insopprimibile gli si fece innanzi. Certo era così, nella sua solitudine egli non era solo, perché quella solitudine era comune a tutti gli uomini, a tutti gli esseri viventi. Non era solo nella sua solitudine !
Allora ricordò le parole del filosofo errante per le vie di Torino, del filosofo folle e denigrato e pur voce vivente, parole che risuonavano, una volta attinte alla fonte, dallo strumento della memoria. E lo ammonivano, nella consapevolezza della solitudine dell’uomo della conoscenza, della vecchiaia inesorabile che reca con sé solo il fardello della saggezza. Intravveduta la luce della vita da lontano, come un miraggio di meridiano splendore, come un attimo di gioia, lo colgono ben presto le nebbie della morte, ma egli ha veduto ciò che in ogni vita e in ogni tempo non sarà mai dimenticato.
Allora considerò il tempo trascorso in quell’angolo della terra, nella solitudine della giovinezza. E vide correre gli anni cinti dalla desolazione, dal tormento dello spirito, dall’asfissia del vincolo familiare. E scorse in un attimo i volti assurdi delle compagnie e delle scarse e vane amicizie, come una sfilata di maschere, e ne rise nel suo cuore di un riso amaro.
E, nell’ombra dilagante, sopra di lui, non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro indiscernibile senza fondo.
Ormai egli era certo. Ai suoi piedi e dietro le due colline ai lati si dilatava il mondo enorme dell’innumerevole società umana. Città gigantesche, rimbombanti di rumore di macchine, accomunavano in un fato senza nome milioni di uomini e tutti aspiravano a un incessante lavorìo di brame, a uno spossante travaglio, ma sopra, sempre più appesantendosi, si posava un’immensa nube nera, colma d’inerzia e di morbo.
Una nuova età s’approssimava, un’era cupa e piena d’orrore.
Senza più sentimento, piegò il volto sul petto, stanco.






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