Al mattino si svegliò in
preda a una estenuazione nervosa. S’alzò, si vestì e corse sul
balcone ai raggi del nuovo giorno.
Il cielo era limpido, una
lieve brezza spirava sulle onde, e soltanto una lunga nube si
disegnava verso il promontorio e sopra il mare, bianca e sottile. Le
gazze gracchiavano volando di ramo in ramo, sugli ulivi ondeggianti
al venticello, sullo sfondo azzurro del mare e del cielo. Era lo
scenario ideale per l’artista che avesse potuto coglierlo e
disporlo sulla tela, e questo certo fu il primo pensiero di Mauro. Ma
la bellezza che circonda l’uomo lo trova non tanto indifferente
quanto spesso inetto a comprenderla e tanto più a imitarla.
Uscì dalla stanza,
dirigendosi verso la spiaggia. Prese la via più breve, per la
breccia nell’alto muro del giardino. Quasi muraglia d’una città
vetusta i blocchi di pietre erano smossi e abbattuti nel luogo più
remoto, tra gli eucalipti e le canne, e si poteva passare fra le
grandi pietre disposte a secco come le rocche dei tempi eroici.
Le onde dolcemente si
stendevano sul lido sabbioso e sembravano voler lambire i cespugli
dei giunchi e giungere sino ai pini e agli alti eucalipti. Sui colli
verdeggiava brillante la gran selva della terra corsa dai raggi
vivaci.
Verdi sotto il sole le
onde dileguavano, quale eco di canti fra le montagne. Un murmure
alterno tra le fronde afflava e insieme alle foglie carezzava i suoi
capelli.
Come lo invitavano le rive
solcate dal flusso, egli depose i suoi panni ed entrò a poco a poco
nel grembo delle varie scintille. La corrente fresca lo avvolse, ed
egli si slanciò proiettando sul fondo la sua ombra fluente. Si sentì
rapito dalla profondità, dalle rocce e dai pesci che sfrecciavano in
branco. Ma la necessità del respiro lo trasse a squarciare il vello
ondoso, a mordere l’aria. L’insidia gli era accanto e lo
blandiva. La paura rapidamente lo spronò alla riva ed egli placò
fra i giunchi il turbamento, e la stanchezza cogliendolo stornò i
ricordi dei sentimenti convulsi. Il torpore e il tremolio delle
correnti lo trasse serpeggiando tra sporgenze di madreperla, candide
e rosee.
Una torre a spirale
culminava in una cupola irregolare e lucente di linee occhiute e di
bizzarri arabeschi, e rilievi smeraldini ed eburnei quasi orli
arcuati di pagode ornavano il palazzo immenso. La porta ovale d’una
colossale conchiglia albicava al pari dell’ambra. L’interno
abbagliava di bracieri e stordiva d’incenso. Ciclopiche statue di
divinità indù troneggiavano in un’espressione di beatitudine
indifferente e innanzi a loro su alti tripodi bruciavano le offerte.
Mostri di basalto digrignavano le zanne ai lati oscurati dalle
colonne rivestite di serpi, sorrette da elefanti marmorei. Nell’alto,
un vortice alla vista, la cupola gigantesca si perdeva, insondabile,
avvolgendosi quale torre di Babele e risuonando delle strida dei
corvi.
Su cuscini color rubino
una donna con dita leggere sfiorava il contorno dei seni e un
serpente strisciava oscillando fra le sue caviglie, il capo eretto e
gli occhi come fiammelle. Ma oltre gli si negò il sogno, un libro
chiuso.
Tutto era dunque perduto
per sempre.
Era tempo di partire.
Preparò le sue cose in
fretta e uscendo dalla villa rivolse per qualche minuto lo sguardo a
considerarne il fascino e la misteriosa bellezza. Tre ampie cupole la
sovrastavano coperte di lastre grigie, poggiando su un’architettura
in stile floreale, muri e colonnati e travi d’un color giallo
sabbioso. Attorno l’ampio parco la coronava della sua fronda
lussureggiante di cedri del Libano, palme, pini, eucalipti. Si
scorgevano in volo le gazze e s’udivano i merli cantare vivaci e
fantasiosi fra i cespugli. Bisognava andare.
Mentre egli saliva il
sentiero della montagna, e il suo cuore si ostinava a salire, vide
levarsi del vapore misto a brandelli di arso fogliame. Non
comprendeva donde provenisse quel monito. Quando giunse alla meta cui
il suo cuore anelava e fu nella radura radiosa sotto l’ombra degli
alti pini dove frinivano le cicale nell’ora sacra al grande dio
Pan, allora s’accorse che il sentiero che aveva percorso era
minacciato da voraci lembi di fuoco che crepitavano e crescevano e
colmavano il cielo in un ampio boato. Tentò quindi di scendere per
il sentiero e di tornare, ma le fiamme, ormai molto elevate, stavano
già divorando gli alberi sulla via e i cespi di ginestra selvatica.
Il vento rinforzava,
empiendo le lingue vermiglie, vaste vele correnti sovra la selva
arida. L’incendio saliva velocissimo, un’ondata rombante,
inondando il versante del monte in forma d’un braciere inesausto.
Egli si vide perduto, e si
precipitò in corsa, ansimando, in preda al panico. Ma poi scorse una
via di scampo che conduceva ad un altro pendio della montagna. Non
cessò di correre, poi che le fiamme incalzavano. E tuttavia gli
parve d’essere pervaso anch’egli da quelle fiamme cui sfuggiva in
un balzo d’agile animale, e che quelle fiamme così alte e
terrificanti e onnipotenti gli trasmettessero la propria forza e la
vigoria della divinità.
E quando fu in salvo per
un altro sentiero, dopo una corsa ansiosa, e si volse a contemplare
le torri di fumo denso e rossastro che empivano il cielo quasi estese
nubi di tempesta, capì che per lui erano sorte e da quelle era stato
purificato, ostia risparmiata dal sacrificio, e un dio gli aveva
offerto quella gioia, serbata ai pochi, di sentirsi così vicino alla
morte.
Egli vide sollevarsi sovra
la montagna la corsa del dio vittorioso e il suo destriero splendido
di crini accesi, asceso dalla terra alle folgori della tempesta, e il
suo volto si perdeva nel cielo.
Nell’ebbrezza ebbe la
triste sorpresa. Nel rogo immane era avvolta la villa di Misandra. Un
fumo denso saliva al cielo e si scorgevano le mura nerastre, ormai
prive del tetto.
Qual era stata dunque la
sorte di Misandra ? Ormai era troppo lontano per saperlo, il suo
cammino non gli permetteva il ritorno e il fuoco ancora crepitava per
tutto il versante della montagna.
Ne avrebbe avuto notizia,
ma troppo tardi.
Continuò dunque a
camminare e arrivò in una radura dove sorgeva un riparo di pastore,
tutto di pietre a secco.
Era quasi il tramonto. Un
vecchio era l’unica presenza umana.
Come una scintillazione di
rapida vita gli esultò d’un tratto nel corpo. Gli si dilatò
l’anima dentro con impeto com’era giunto al vertice del colle, e
gli ulivi ad ondate grigie si stendevano sotto di lui. Si sentì
partecipe della sicura quiete delle cose viventi, respirò l’aria,
strinse con la mano un tronco ruvido d’ulivo.
Stava il vecchio innanzi
alla visione del mondo.
Era seduto a margine della
strada, con un bastone in mano, l’aria tranquilla. Guardava di
fronte a sé l’estesa catena delle montagne illuminate dal sole.
Così, mentre passava,
egli vide un vecchio e s’immedesimò in lui. E gli parve essere ai
confini della vita, innanzi alla vista immensa delle esistenze
passate e future. Come se attraverso le fibre del corpo filtrassero
gli aneliti di tutte le vite umane, sentì nell’attimo la
rivelazione. In lui trascorreva l’eterno divenire, in lui trascorso
avrebbe continuato il suo fluire in altre forme, in altre esistenze.
Lo ammoniva il vecchio,
gli diceva con lo sguardo : “ Accetta il destino “. Ed egli
abbassò il capo.
Una sensazione opprimente
stringeva come una morsa le tempie e il suo cuore. Ma nel silenzio,
un gelido manto, ecco un’idea insopprimibile gli si fece innanzi.
Certo era così, nella sua solitudine egli non era solo, perché
quella solitudine era comune a tutti gli uomini, a tutti gli esseri
viventi. Non era solo nella sua solitudine !
Allora ricordò le parole
del filosofo errante per le vie di Torino, del filosofo folle e
denigrato e pur voce vivente, parole che risuonavano, una volta
attinte alla fonte, dallo strumento della memoria. E lo ammonivano,
nella consapevolezza della solitudine dell’uomo della conoscenza,
della vecchiaia inesorabile che reca con sé solo il fardello della
saggezza. Intravveduta la luce della vita da lontano, come un
miraggio di meridiano splendore, come un attimo di gioia, lo colgono
ben presto le nebbie della morte, ma egli ha veduto ciò che in ogni
vita e in ogni tempo non sarà mai dimenticato.
Allora considerò il tempo
trascorso in quell’angolo della terra, nella solitudine della
giovinezza. E vide correre gli anni cinti dalla desolazione, dal
tormento dello spirito, dall’asfissia del vincolo familiare. E
scorse in un attimo i volti assurdi delle compagnie e delle scarse e
vane amicizie, come una sfilata di maschere, e ne rise nel suo cuore
di un riso amaro.
E, nell’ombra dilagante,
sopra di lui, non era il cielo stellato né il volto pallido e
stupito della luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un
baratro indiscernibile senza fondo.
Ormai egli era certo. Ai
suoi piedi e dietro le due colline ai lati si dilatava il mondo
enorme dell’innumerevole società umana. Città gigantesche,
rimbombanti di rumore di macchine, accomunavano in un fato senza nome
milioni di uomini e tutti aspiravano a un incessante lavorìo di
brame, a uno spossante travaglio, ma sopra, sempre più
appesantendosi, si posava un’immensa nube nera, colma d’inerzia e
di morbo.
Una nuova età
s’approssimava, un’era cupa e piena d’orrore.
Senza più sentimento,
piegò il volto sul petto, stanco.
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