Sulla selva antica
s’addensava l’ombra e il profondo fruscìo del silenzio. Dal
viale del giardino egli scorgeva nel cielo, sopra la foresta
assopita, la luna sorgente in una veste rossa, e innanzi le
trascorrevano tenui vapori del vasto vagito del mare, e sopra le rupi
del promontorio s’elevava lenta la luna, quasi galleggiando sulla
nebbia arrossata che si fondeva, s’immergeva nel parco oscurato.
Nel giardino ella lo
attendeva. Nel giardino ove le piante procombevano nel crepuscolo
stanco, estendendo le ombre dei lunghi rami. E si sentiva l’alitare
intenso degli aranci e il profumo delle siepi di rose rampicanti.
Ella lo attendeva e la
luna si rivelava ora dietro di lei, un vasto disco di luce pallida
rifulgente sul mare. E come si perdevano i rossi rivoli del tramonto
ormai dissolto oltre l’orizzonte, quasi lembi d’una veste
prolissa, d’un manto effuso nel vento e lacerato, e svanivano
bevuti dall’ombre della notte uniforme, non altra luce che quella
incantata e velata dell’antica Artemide si deponeva cautamente
sovra il silente golfo della terra assonnata e si dimostrava maliosa
agli occhi di Mauro, forse per la prima volta aperti al suo dischiuso
mistero.
Ed ella lo attendeva,
immota e bianca come un giglio. Ed egli s’avvicinò, e, quasi per
bere da un candido e puro calice, l’avvolse tra le braccia e
lentamente la baciò, bevendo a lunghi sorsi l’ebrietà del suo
fiato. E Misandra s’abbandonò, si lasciò sostenere la bella nuca,
e il corpo suo fremette poi che l’anima fluiva tutta e si riversava
fra le labbra di lui per dissetarlo. Poi, esausta, si distaccò,
soverchiata dall’amplesso, paga del suo dono, e il viso suo
risplendette nell’alone della luna virginea.
Dopo lo prese per mano e,
dapprima procedendo con lentezza, poi in un cammino affrettato e
quindi in una corsa simile a un volo, lo trascinò verso la collina.
In cima sorgevano le rovine d’un antico borgo medioevale. Quando
v’entrarono, la luna l’illuminò attraverso una bifora,
dall’alto, perché erano in una vasta navata d’un antico tempio
decaduto. Essendo crollato il tetto, il cielo stellato appariva sopra
di loro. Le mura del borgo, nere e minacciose, s’innalzavano sulla
collina. Essi erano nel vestibolo d’un mondo morto.
“ Vinci la tua paura ! “
ella disse, e lo condusse attraverso la porta della cripta, risonante
dei loro passi per il lungo andito oscuro. Poi discesero per una
scala umida e si trovarono in una vasta aula cinta di nicchie, cupa e
verdastra come caverna marina. Il soffitto concavo era occupato da
una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, in alcune
cavità del sotterraneo dormivano i pipistrelli, qualcuno però
aliava sommuovendo la trasparente tela e lacerandone alcuni lembi
fluttuanti.
Sul pavimento sconnesso
era cresciuto uno strato di muschio e sulle pareti ancora, nonostante
la ramificazione delle muffe, si notavano figure d’affresco, sirene
che si curvavano verso l’onde mentre l’oro delle chiome fluide e
volitanti una mano ignota tentava di afferrare invano.
Un tritone suonava la
bùccina dorata che risaltava sullo sfondo divorato dall’umido, e
sembrava davvero uscire dalla profondità del mare, e un raggio di
luna filtrato da un pertugio nel soffitto lo illuminava, quasi fioca
luce negli abissi.
Ed iniziarono allora la
discesa nel sotterraneo, poiché nel centro della cupa grotta una
botola era aperta, come un invito ad entrare, mentre s’udiva dal
profondo salire un rumore quale d’acque mormoranti.
Entrarono. Un turbine
improvviso li colse nelle sue spire, li trascinò nel suo gorgo
oscuro. Ed essi furono ingoiati dalle tenebre, né vedevano né
udivano più nulla.
Ma poi si trovarono in una
vasta cavità, ove echeggiava il brontolìo di acque correnti che si
frangevano contro la riva. E in alto scorgevano quasi bagliori di
fulmini ed ascoltavano con meraviglia il rimbombare del tuono.
Stavano entrambi sulla sponda, come in attesa.
I raggi rosei dell’alba
ormai serpeggiavano nei flutti e la grande bocca della caverna pareva
aprirsi con denti scintillanti.
Alla roccia era legata una
barca. Vi salirono e Mauro cominciò a remare verso l’apertura
luminosa.
Sotto la vasta cupola
risonante essi si smarrivano tra le brume dei sogni. Scorgevano sulle
alte pareti i colori risaltanti stranamente alla luce del lago,
oscillante in un lucore verde rame, i colori di mosaici grandiosi,
dalle figure splendidamente ieratiche, immobili nella loro maestà.
Come uscirono, li avvolse
l’aria del mattino in una fresca ebbrezza. Le onde pigramente si
stendevano sul lido, altre roteavano presso le rocce, e si ritraevano
in cadenza. Una luce calda e verde circondava le colline intorno. Sul
promontorio la villa sorgeva come una roccia minacciosa. La torre con
l’orologio era un grande occhio spalancato sugli abissi
echeggianti. Ricordava il palazzo dei Farnese che domina il grande
lago, il palazzo dalla porta dalle due teste d’angelo, o di Medusa
?
Ed era la dimora
dell’illusione. Alta, inaccessibile, l’illusione d’amore
circondava in una veste irradiante la figura di Misandra che si
stagliava sulla distesa marina greve ancora dell’ombra notturna,
quasi lucente di proprio lume.
E l’aurora aleggiava
all’orizzonte e si fondeva con l’alitante tepore lunare, che si
schermiva dietro gli alti pini del promontorio a occidente,
procombente sulle acque oscure.
S’udì un improvviso
tintinnìo, ed ecco si staccava dalla penombra, sotto la massa
frondosa della costa, una navicella nera, avanzando sull’aleggiare
di bianche vele. S’avvicinava rapidamente, sopra lo specchio del
mare, e come fu presso la barca, Mauro vide che dalla poppa alla prua
era colma di bambole d’ogni tipo e d’ogni colore, che lo
fissavano coi loro occhi dipinti. Misandra fu tratta a bordo dal
braccio d’un destro marinaio, quindi la navicella s’allontanò
ancor più velocemente di prima.
Mauro allora si diresse
verso la spiaggia, remando in fretta, stupito e adirato per il
comportamento di Misandra, e, quando vi giunse, abbandonò la barca
sulla sabbia e s’incamminò verso la villa.
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