lunedì 1 dicembre 2014

Misandra, cap. 19





Sulla selva antica s’addensava l’ombra e il profondo fruscìo del silenzio. Dal viale del giardino egli scorgeva nel cielo, sopra la foresta assopita, la luna sorgente in una veste rossa, e innanzi le trascorrevano tenui vapori del vasto vagito del mare, e sopra le rupi del promontorio s’elevava lenta la luna, quasi galleggiando sulla nebbia arrossata che si fondeva, s’immergeva nel parco oscurato.
Nel giardino ella lo attendeva. Nel giardino ove le piante procombevano nel crepuscolo stanco, estendendo le ombre dei lunghi rami. E si sentiva l’alitare intenso degli aranci e il profumo delle siepi di rose rampicanti.
Ella lo attendeva e la luna si rivelava ora dietro di lei, un vasto disco di luce pallida rifulgente sul mare. E come si perdevano i rossi rivoli del tramonto ormai dissolto oltre l’orizzonte, quasi lembi d’una veste prolissa, d’un manto effuso nel vento e lacerato, e svanivano bevuti dall’ombre della notte uniforme, non altra luce che quella incantata e velata dell’antica Artemide si deponeva cautamente sovra il silente golfo della terra assonnata e si dimostrava maliosa agli occhi di Mauro, forse per la prima volta aperti al suo dischiuso mistero.
Ed ella lo attendeva, immota e bianca come un giglio. Ed egli s’avvicinò, e, quasi per bere da un candido e puro calice, l’avvolse tra le braccia e lentamente la baciò, bevendo a lunghi sorsi l’ebrietà del suo fiato. E Misandra s’abbandonò, si lasciò sostenere la bella nuca, e il corpo suo fremette poi che l’anima fluiva tutta e si riversava fra le labbra di lui per dissetarlo. Poi, esausta, si distaccò, soverchiata dall’amplesso, paga del suo dono, e il viso suo risplendette nell’alone della luna virginea.
Dopo lo prese per mano e, dapprima procedendo con lentezza, poi in un cammino affrettato e quindi in una corsa simile a un volo, lo trascinò verso la collina. In cima sorgevano le rovine d’un antico borgo medioevale. Quando v’entrarono, la luna l’illuminò attraverso una bifora, dall’alto, perché erano in una vasta navata d’un antico tempio decaduto. Essendo crollato il tetto, il cielo stellato appariva sopra di loro. Le mura del borgo, nere e minacciose, s’innalzavano sulla collina. Essi erano nel vestibolo d’un mondo morto.
Vinci la tua paura ! “ ella disse, e lo condusse attraverso la porta della cripta, risonante dei loro passi per il lungo andito oscuro. Poi discesero per una scala umida e si trovarono in una vasta aula cinta di nicchie, cupa e verdastra come caverna marina. Il soffitto concavo era occupato da una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio, in alcune cavità del sotterraneo dormivano i pipistrelli, qualcuno però aliava sommuovendo la trasparente tela e lacerandone alcuni lembi fluttuanti.
Sul pavimento sconnesso era cresciuto uno strato di muschio e sulle pareti ancora, nonostante la ramificazione delle muffe, si notavano figure d’affresco, sirene che si curvavano verso l’onde mentre l’oro delle chiome fluide e volitanti una mano ignota tentava di afferrare invano.
Un tritone suonava la bùccina dorata che risaltava sullo sfondo divorato dall’umido, e sembrava davvero uscire dalla profondità del mare, e un raggio di luna filtrato da un pertugio nel soffitto lo illuminava, quasi fioca luce negli abissi.
Ed iniziarono allora la discesa nel sotterraneo, poiché nel centro della cupa grotta una botola era aperta, come un invito ad entrare, mentre s’udiva dal profondo salire un rumore quale d’acque mormoranti.
Entrarono. Un turbine improvviso li colse nelle sue spire, li trascinò nel suo gorgo oscuro. Ed essi furono ingoiati dalle tenebre, né vedevano né udivano più nulla.
Ma poi si trovarono in una vasta cavità, ove echeggiava il brontolìo di acque correnti che si frangevano contro la riva. E in alto scorgevano quasi bagliori di fulmini ed ascoltavano con meraviglia il rimbombare del tuono. Stavano entrambi sulla sponda, come in attesa.
I raggi rosei dell’alba ormai serpeggiavano nei flutti e la grande bocca della caverna pareva aprirsi con denti scintillanti.
Alla roccia era legata una barca. Vi salirono e Mauro cominciò a remare verso l’apertura luminosa.
Sotto la vasta cupola risonante essi si smarrivano tra le brume dei sogni. Scorgevano sulle alte pareti i colori risaltanti stranamente alla luce del lago, oscillante in un lucore verde rame, i colori di mosaici grandiosi, dalle figure splendidamente ieratiche, immobili nella loro maestà.
Come uscirono, li avvolse l’aria del mattino in una fresca ebbrezza. Le onde pigramente si stendevano sul lido, altre roteavano presso le rocce, e si ritraevano in cadenza. Una luce calda e verde circondava le colline intorno. Sul promontorio la villa sorgeva come una roccia minacciosa. La torre con l’orologio era un grande occhio spalancato sugli abissi echeggianti. Ricordava il palazzo dei Farnese che domina il grande lago, il palazzo dalla porta dalle due teste d’angelo, o di Medusa ?
Ed era la dimora dell’illusione. Alta, inaccessibile, l’illusione d’amore circondava in una veste irradiante la figura di Misandra che si stagliava sulla distesa marina greve ancora dell’ombra notturna, quasi lucente di proprio lume.
E l’aurora aleggiava all’orizzonte e si fondeva con l’alitante tepore lunare, che si schermiva dietro gli alti pini del promontorio a occidente, procombente sulle acque oscure.
S’udì un improvviso tintinnìo, ed ecco si staccava dalla penombra, sotto la massa frondosa della costa, una navicella nera, avanzando sull’aleggiare di bianche vele. S’avvicinava rapidamente, sopra lo specchio del mare, e come fu presso la barca, Mauro vide che dalla poppa alla prua era colma di bambole d’ogni tipo e d’ogni colore, che lo fissavano coi loro occhi dipinti. Misandra fu tratta a bordo dal braccio d’un destro marinaio, quindi la navicella s’allontanò ancor più velocemente di prima.
Mauro allora si diresse verso la spiaggia, remando in fretta, stupito e adirato per il comportamento di Misandra, e, quando vi giunse, abbandonò la barca sulla sabbia e s’incamminò verso la villa.








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