martedì 30 luglio 2019

G. D'Annunzio, da Il libro segreto ( sulle opere di successo )


G. D'Annunzio, Il libro segreto, Milano, Oscar Mondadori, 1977


La grandezza di un'opera non si misura al numero dei suffragi che l'accolgono ma sì bene all'impulso ch'ella determina in rari spiriti chiusi, all'ansia subitanea ch'ella solleva in un uomo d'azione o d'accidia o di mercatura, alla perplessità straziante ch'ella agita in una sorte già resoluta.” (p. 224)

lunedì 29 luglio 2019

Paul Bourget, Cosmopoli








Paul Bourget, Cosmopoli (1892), Firenze, Salani, 1930


Dialoghi da scena di teatro, personaggi fortemente tipizzati, la cui psicologia si ricava dalla descrizione del loro aspetto e dai discorsi che fanno come rivolti a un uditorio.
P. 36-37, Dorsenne il romanziere gentiluomo, ironico e fatuo, assomiglia molto ad Andrea Sperelli ne Il piacere (1889) di D'Annunzio. Inoltre il romanzo è ambientato a Roma, la Roma di Sperelli, quella barocca dei papi e quella elegante delle dame.
Il romanzo è abbastanza superficiale, ma brillante e scritto molto bene, per la convenzionalità dei personaggi e delle situazioni si può accostare a quelli del nostro A. G. Barrili, ma è decisamente superiore per l'analisi e la finezza introspettiva.
P. 42, l'aspetto fisico di Dorsenne assomiglia a quello di Claudio Cantelmo ne Le vergini delle rocce di D'Annunzio. Viene infatti paragonato a un bruno monaco spagnolo dimagrito dall'ascetismo, dal colorito olivastro, proprio come Cantelmo. E' un dilettante di sensazioni, vuole “rendere intellettuali delle sensazioni vive” (p. 43).
P. 45, sempre a proposito del giovane scrittore si parla di “epicureismo cerebrale”, avvicinandolo molto al Des Esseintes di Huysmans. Altro rilievo, alla Andrea Sperelli : “L'eccesso della riflessione veniva sempre a corrompere o a distruggere la sua innata sensibilità …“
P. 66-67, nonostante l'analisi psicologica del personaggio Dorsenne, prevale il tipo umano e la tipizzazione sfocia in una convenzione di figurine alla moda come la contessa Steno. Decisamente Bourget è un Barrili un po' meno ingenuo.
P. 78-79, il tipo umano descritto nel personaggio del conte Boleslas Gorka è chiaramente simile ai personaggi di D'Annunzio, evidentemente un modello comune agli scrittori “esteti” : “... Boleslas Gorka, celebre come bell'uomo, ammirevole animale umano, sì fine e sì forte, che aveva in sé secoli e secoli d'aristocrazia.” Fisico asciutto, elegante, dalla lunga barba dai riflessi rossastri e naturalmente “tombeur de femmes”, fuma sigarette russe come il futuro Thomas Buddenbrook.
La maggior parte dei personaggi è rigorosamente aristocratica e, come Dorsenne, afflitta da sensibilità nervosa cronica ( vedi Alba Steno ).
P. 122, il ritratto della signora Steno ( madre di Alba ) è del tipo convenzionale ormai, alla Balzac, e che troviamo prodotto in serie nei romanzi d'appendice di Anton Giulio Barrili, cioè la solita biondona coperta di perle e smeraldi paragonata ai ritratti di Tiziano.
Il cap. V inizia con l'analisi psicologica della contessa Steno, che rivela l'interesse dell'autore proteso a sondare l'animo umano. Ma si tratta di un'analisi da romanziere e i casi contemplati rientrano tutti nel cliché delle figure da romanzo.
Nel cap. VI si nota l'abilità psicologica del romanziere nel delineare la personalità di Florenzio Chapron e la storia della sua formazione tenendo presente le caratteristiche ereditarie e l'influsso dell'ambiente ( vedi Hippolyte Taine, Philosophie de l'art, 1893 )
P. 181, NB sia Montfanon, il nobile reazionario amico di Dorsenne, che lo stesso Dorsenne sono amici del conte Gobineau, “l'apostolo della teoria delle razze” !
La macchinosa rete che avviluppa un adulterio a un matrimonio combinato con le trame sotterranee per evitare un duello ( cap. VI ), pur manifestando l'abilità psicologica del narratore , riesce nondimeno gravosa al lettore di romanzi, tranne, forse, a chi è abituato alla saggistica freudiana.
P. 208, rassegna del bel mondo che ricorda gli articoli giornalistici del D'Annunzio mondano. E' evidente che il pubblico a cui questi scrittori si rivolgono è lo stesso, quello dell'aristocrazia e della media borghesia snob.
P. 212 e sg. L'analisi psicologica di Lidia Maitland si estende per più pagine ed è davvero magistrale, come l'incontro di lei e Maud Gorka viene rappresentato nella sua evidenza drammatica, nella sua naturale tensione emotiva. Bourget mostra una grande conoscenza del cuore umano.
Anche l'analisi dell'animo di Maud Gorka è condotta con grande sapienza, e suscita il paragone con le analisi di caratteri più o meno contemporanee dei romanzi di D'Annunzio, soprattutto Il piacere e il Trionfo della morte. Questo gusto per l'analisi è un po' tipico dell'epoca, da Tolstoj a Thomas Mann, celebrando la sua apoteosi con Marcel Proust. Direi che per questo motivo la seconda metà del romanzo è superiore alla prima.
Cap. VIII. La scena del duplice duello è assai suggestiva, Bourget è senza dubbio un abile narratore e sfrutta tutte le possibilità offerte dall'intreccio e dai personaggi. D'altra parte, non manca di ottimi maestri ( vedi Dumas ).
Il seguito di analisi psicologiche nel colloquio tra Boleslas Gorka e sua moglie Maud e poi in quello tra la contessa Steno e sua figlia Alba è opera di un vero maestro. Il problema è che l'eccezionale capacità di analisi viene esercitata su personaggi di per sé poco significativi e poco complessi, di modo che si tratta più dell'analisi di una singola passione che di un essere umano. La passione viene sceverata e passata al setaccio, ma l'essere umano non ci appare in tutta la sua molteplice vita spesso contraddittoria, infatti, se di contraddizioni si tratta, sono sempre le contraddizioni di una singola passione.
P. 281, soltanto l'analisi dell'animo di Alba Steno non è soggetto al dominio di una sola passione. Qui l'avanzare del dubbio e la progressiva caduta di ogni possibile giustificazione vengono presentati nella loro cruda inesorabilità e la complessità che ne deriva nei pensieri di Alba corrisponde alla realtà della psiche. Qui direi che lo scrittore esplica in modo completo il suo talento che è senza dubbio grande.
Così inesorabilmente procede nella sua tragica spirale la scena della rivelazione dell'adulterio di sua madre e di Maitland per opera della perfida e infelice moglie di lui, Lydia, altro esempio di psiche contorta che dà la misura della capacità notevole di analisi del romanziere.
P. 341, l'analisi psicologica è a tal punto rigorosa e scientifica che l'autore si spinge fino a valutare l'importanza sul comportamento umano del peso dell'ereditarietà. Qui siamo in bilico tra il Positivismo e i trasalimenti nervosi dei Decadenti.
P. 345, la scena dell'incontro tra Alba e lo scrittore Dorsenne, la confessione d'amore della giovane destinata al suicidio, sono di rara efficacia, Bourget sa calibrare perfettamente le dosi necessarie a ottenere come nell'acme di una tragedia il pathos. E Dorsenne con la sua cerebralità e aridità sentimentale è il tipo di esteta dilettante alla Andrea Sperelli e nella sua freddezza quasi crudele assomiglia a un altro giovane bello e insensibile, che provoca la morte dell'innamorata, cioè Dorian Gray.
La narrazione del suicidio di Alba è forse un po' prolissa e l'autore indugia troppo, però la descrizione del laghetto di Porto è un quadro decisamente suggestivo e degno del pennello di un Boecklin :
... la superficie del lago era così calma, che appena appena, a intervalli, un lieve e silenzioso fremito increspava l'acqua nera, grave, densa, invasa dai giunchi, coperta da lunghe e cupe foglie di piante acquatiche. E dappertutto, intorno alla fanciulla, c'era un'immensa fioritura, come una foresta di gigantesche canne rosee, mentre sull'altra sponda i pini italici si ergevano, allungando, allargando le loro chiome nere su un cielo turchino ove il sole cominciava ad abbassarsi, poiché erano passate le cinque, e una nebbiolina lieve già biancheggiava sul lago, - non nebbia, no, - un alito, un vapore di vapore, come per velare il tono troppo metallico dell'acqua morta. Non un soffio di vento faceva tremare le esili canne attraverso le quali saliva il gracidare delle innumerevoli rane nascoste nell'erba. Talvolta una di queste bestiole faceva un salto nel lago : era come il rumore di un sasso che cade nell'acqua, uno sciacquio, il brivido di una ruga più profonda, - poi lo specchio del vasto stagno riprendeva il suo aspetto, di un fascino sinistro e incantevole in pari tempo. Talvolta, invece, dei corvi volavano pel cielo, con grandi stridi, andavano a posarsi su un prato a sinistra, a cui conduceva un viale fiancheggiato di rose per il quale Alba era sopraggiunta, ed essa aveva colto senza riflettere alcuni fiori di cui si era adornata il petto, per un ultimo istinto di giovinezza e di civetteria anche nella morte ! … La fine di quel pomeriggio così puro, quel lago quasi fantasticamente immobile, quell'orizzonte tragico con un certo carattere d'ineluttabilità sparso su tutte le cose, - tutto il malinconico scenario di quell'istante supremo s'accordava in modo così completo coi pensieri della fanciulla, che essa ne fu rapita. C'era nell'atmosfera umida che a poco a poco la penetrava, un incanto di sonno mortale a cui si abbandonò come in sogno, quasi con una voluttà fisica, senza più volontà, assorbendo con tutto il suo essere gli effluvi di febbre di quel luogo, uno dei più micidiali, in quel tempo e in quell'ora, di tutta la pericolosa costa, finché un brivido di freddo la scosse a un tratto, sotto la stoffa sottile della sua camicetta da estate. Ella strinse le spalle, serrò i denti, e quel subitaneo malessere fu per lei il segnale d'agire. Prese il viale dei rosai in fiore per giungere a un punto della riva spoglio di vegetazione dove si disegnava la forma di una barca. Lesta lesta la sciolse, e, manovrando con le sue mani delicate i remi pesanti, si avanzò fino in mezzo al lago.” (p. 353-354)
L'epilogo con il dialogo tra Montfanon e Dorsenne e la requisitoria del primo contro i sofismi dell'intellettuale decadente e algido costituiscono una sorta di condanna dell'esteta, del dilettante di sensazioni, che era stato invece celebrato da D'Annunzio. Ma anche Oscar Wilde esprime un giudizio di condanna nei confronti di Dorian Gray, facendogli fare una brutta fine. Però poi nella vita continuò a professarne le idee e gli atteggiamenti.
Montfanon costituisce l'alter ego di Dorsenne. E' il nobile attempato e legato alla vecchia Francia. Cattolicissimo, oppone la forza della fede al cinismo corrosivo del giovane amico. E alla fine del romanzo si rivela una sorta di guida morale, il vecchio saggio che riesce con la sua costante assistenza a porre Dorsenne sulla via dell'umanità e della redenzione.

lunedì 15 luglio 2019

Pirandello, Ciascuno a suo modo


L'arte di Pirandello è tutta basata sul paradosso. Anche il titolo della raccolta di tutti i drammi, cioè Maschere nude, è un paradosso, perché è un ossimoro. Il paradosso è basato sul contrasto evidente tra due idee, così l'ossimoro, e infatti dice Pirandello che il suo umorismo è basato sul “sentimento del contrario”.
A parte dunque il retroterra culturale di Pirandello che è sicuramente vastissimo, da Nietzsche a Freud a Bergson, la sua arte è però molto semplice, essa consiste nel paradosso. E questo può avere un esito tragico come uno comico, basta sfruttarne a fondo il filone che è praticamente inesauribile. Questo spiega l'estrema prolificità di Pirandello.
Un altro elemento accattivante è l'abilità dialettica che rifulge sulla scena e richiama il dialogo socratico di Platone, dove spesso Socrate procede per antitesi, giochi di parole e paradossi. Questo elemento conferisce ai drammi di Pirandello un alone filosofico di indubbia originalità rispetto alle opere teatrali dell'epoca, ad es. quelle di D'Annunzio dove prevale la forza fatale della passione.
Tuttavia la frequente rottura della finzione scenica per rivelare l'interno meccanismo di essa, e che è a sua volta ancora finzione, risulta alla fine stucchevole. Se ciò gratifica inizialmente lo spettatore goloso di nuove trovate, secca però il lettore del testo che perde il filo degli avvenimenti.
Se viene soddisfatta l'ansia di novità del pubblico, è anche vero che il fine della poesia non è la “meraviglia”.
Così dopo la lettura di uno di questi drammi, come ad es. “Ciascuno a suo modo” o “Questa sera si recita a soggetto”, si torna a respirare d'un respiro un po' pacato e salutare dopo tanto ansimo, con la lettura d'un classico come “L'avaro” di Molière.

giovedì 11 luglio 2019

Venus


Sole d'estate sopra il giglio azzurro,
tu dimori sui prati Anadiomene,
fili d'oro la fronda quasi vene
di luce verde colta in un susurro,

e nell'iride accorre cinerina
la Fenice purpurea, tu distilli
su grappoli di fiori la sordina
d'acre suono che impetri e disfavilli.

Vergine stanca o amazzone guerriera
muovi alla danza sull'arboreo fiato,
che scolora nei venti e torna cera
d'api e di miele calice illibato.

Fuga di veli nuda tu ammanti
l'ammaliato narciso, e il sacro
coro dei monti per i dolci canti
vibra sui sassi rapido lavacro.

Tu assalto d'ombre nel tempestoso
sonno del giorno, e occhio che dormi
nella stilla del lago lacrimoso,
sogni d'aironi i variati stormi.

Ansia cupa della nube grigia,
agonia d'un vello putrescente,
per la palude ti dissolvi Stigia,
più nulla offri alle pupille spente.

Ma la tua chioma è un tiepido ruscello
nella mattina vergine e vivace,
vivida foglia di smeraldo tace,
spira ed odora casta in un sacello.

Così i tuoi occhi suonano armoniosi
come i fianchi dell'arpa levigati,
bella e sinuosa onda che ti sposi,
sciolta la spuma in ansimi falcati.

Nere pupille come le criniere
di stalloni sulfurei al galoppo,
o labbra di soave bocca sincere
e troppo ardite e bramate troppo.

O profilo del mento, dolce naso,
o delicata fronte rilucente
da fiori d'oro nel tuo cielo invaso,
caro segreto dell'astrusa mente,

o d'amori in fuga amorosa torma,
ti precipiti e ti celi ora invano,
quale corpo che solitario dorma
e più trascorre nell'immenso piano.

Ebrezza folle del linguaggio muto
è della danza la magia sovrana,
come ti segno nel pensare acuto
così ti bevo nella coppa arcana.

Un cigno del passato si ricorda
sul lucido sospirare dei meli
quale si perde di memoria l'orda
nell'oblio monotono dei cieli.

Tu certo non ricordi, fanciulla,
l'attimo perduto degli sguardi,
il grigio dei capelli è troppo tardi
e il volto si dissolve nel mio nulla.

Che d'imeneo il soave flauto
perduto giacque sopra morte arene,
questa fu colpa e il suonatore incauto,
che si recise le pulsanti vene.

Non assicura un bacio le perfidie
e velleità del morso misterioso
e non hai per me le dolci insidie
e non mi attiri un palpito geloso.

Anni perduti nell'inconscio nodo
dei doveri e del fato, odiosi inganni
dello spietato tempo, sconci affanni
d'una coscienza che non ha più modo.

Sogno senza rimedio, e conforto
di fantasmi, né a me quieto porto
di maturi riflessi, rimembranza
di figure ignote, in lontananza.


domenica 7 luglio 2019

Federico De Roberto, I vicerè


Federico De Roberto, I vicerè (1894) in Romanzi, novelle e saggi, Milano, Meridiani Mondadori, 1993



Sembra sottratto ormai all'influsso di Paul Bourget, che prevale ne L'illusione (1891). Si tratta di un affresco senza veli rappresentante la mentalità italiana prevalente (dall'unità in poi, tanto da essere attuale !). Perfetta ricostruzione d'ambiente che si riflette nei personaggi, gli esponenti della nobiltà animati di iattanza e i popolani pervasi di ossequio reverenziale, c'è tutto il Sud, dai cafoni alla spocchia spagnola.
Lo stile è estremamente scorrevole e quindi l'opera si legge con facilità, il linguaggio è quello colloquiale, una sorta di sermo familiaris della buona borghesia.
I personaggi sono dipinti a vivi colori secondo il temperamento siciliano e non mancano le macchiette come don Blasco e donna Ferdinanda. Gli ambienti sono costruiti con assoluto realismo e rimarcano sempre il motivo del potere e della pompa, come il palazzo dei principi Uzeda e il convento dove va a studiare il principino Consalvo.
La molla che fa scattare i personaggi è la sete di denaro e di potere, chi non è dominato da questi due idoli fa la figura del babbeo, come appunto Ferdinando. Il duca d'Oragua, zio del principe Uzeda, rappresenta l'opportunismo d'élite pronto a vendersi al primo vincitore pur di rimanere a galla.
Parte seconda, cap. II, p. 718 e sg., la narrazione del matrimonio infelice di Raimondo e Matilde, l'analisi dell'amore tormentato di quest'ultima rivelano l'adesione allo psicologismo di Bourget, che sembrava superato nei primi capitoli. Nel caso di De Roberto non si può parlare di Verismo ma piuttosto di Realismo psicologico. Si potrebbe fare un collegamento tra questo romanzo e L'esclusa (1901) di Pirandello per quanto interessa l'analisi dei personaggi.
Parte seconda, cap. III, l'umorismo trionfa nella rappresentazione delle trame dei monaci a San Nicola, delle loro tresche, dei loro vizi. In particolare rifulge quella vera macchietta che è don Blasco, una vera esplosione di energia animale, dominata da un orgoglio ferino e da un'avidità materiale cresciuti a dismisura in un ambiente che con la sua apparente segregazione ha moltiplicato invece che lenire le cupidigie e le bramosie più basse.
I monaci benedettini fanno vita da gaudenti, mangiano a crepapelle, bevono come spugne e fuori del convento hanno le loro mantenute (almeno all'epoca andavano con le donne ! Cosa facciano oggi è meglio non saperlo).
Anticipa Pirandello nella mutevolezza degli atteggiamenti e delle idee dei membri di casa Uzeda, come per esempio l'amore sviscerato di Lucrezia per il marito che poi si trasforma in avversione radicale, così come al contrario l'iniziale avversione di Chiara per il futuro marito si trasforma in totale dedizione. “Strambi ! … Cocciuti ! … Pazzi ! …” (p. 841) questo è il giudizio reciproco che si rivolgono a vicenda i nobili Uzeda, a seconda della convenienza indossando la maschera del filantropo e del patriota, del dongiovanni o del prete. Di conseguenza il loro comportamento sfocia nel paradosso, che è la formula sfruttata e talvolta abusata dell'arte di Pirandello.
A proposito di pazzi fa coppia con Ferdinando il babbeo l'imbrattacarte don Eugenio, intestarditosi a comporre libri genealogici delle famiglie nobili e che mancando di istruzione scrive in una prosa orripilante. La sua follia lo riduce sul lastrico e va mendicando tra i parenti sottoscrizioni e finanziamenti alla sua opera, ricevendone puntualmente rifiuti conditi di insulti, ma senza mai perdere la speranza.
Altro caso patologico è quello della principessa Teresa sorella di Consalvo, che rinunzia all'amore per il barone Giovannino Radalì perché costretta a sposarne il fratello, duca Michele. Mentre Consalvo è il ribelle miscredente che ripudia la famiglia per abbracciare il libero pensiero e la vita politica, Teresa è la santerellina che si sacrifica in tutto e per tutto e alla fine è assillata dalla mania della santità. Si tratta veramente di una rassegna di personaggi afflitti o dal vizio o dalla malattia mentale, ossessionati dall'idea di dover primeggiare in ogni circostanza e in ogni modo perché sono del sangue degli Uzeda di Francalanza, i Vicerè.
E a primeggiare riesce in effetti il più sano di mente di tutti, ma anche il più subdolo e quello che assomiglia molto allo zio cardinale, altro esempio eclatante di ipocrisia. Consalvo pur di essere eletto deputato e tentare così la scalata al potere è disposto a fingersi socialista e a frequentare, con un interno moto di orrore e turandosi il naso, la compagnia dei popolani. Il suo discorso per l'elezione a deputato è un capolavoro di ipocrisia e di furbizia e sorprende l'argomentazione che ricorre a un nazionalismo esasperato con la promessa demagogica di ricostituire addirittura con la fondazione di colonie l'antico impero romano. Affermazioni che sorprendentemente anticipano quelle di Mussolini, in un romanzo della fine dell'Ottocento !
Una volta eletto con pieno successo, Consalvo si reca dai parenti cominciando dallo zio duca, che lo ha aiutato, e poi dalla sorella Teresa, che non trova a palazzo. Quindi si reca dalla zia Ferdinanda, gravemente malata, nella speranza di intascarne l'eredità, e innanzi a lei, immobilizzata a letto da un acuto raffreddore, inizia un lungo discorso apologetico per dimostrarle di non aver fatto nient'altro che continuare la grandezza del casato e mantenerne il primato nella società siciliana. Egli ha ragione e il succo delle sue argomentazioni si riassume nelle parole seguenti (p. 1100) :
La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; … ma la differenza è tutta esteriore.”

giovedì 4 luglio 2019

Marko Kurtinovic, Le abitudini


Marko Kurtinovic, Le abitudini, Roma, Gruppo Albatros, 2019


Probabilmente lo stile è mutuato da poeti oggi di moda come Erich Fried o altri, le cui poesie circolano pure su Instagram, ma al di là delle mode l'opera di Kurtinovic svela subito a colpo d'occhio l'impronta di una personalità.
P. 13 – 23, “ Il miracolo del capitano “ esprime la disperazione esistenziale dinanzi al Nulla. Il “capitano” ricorda Walt Whitman, in particolare si possono menzionare questi versi che sembrano rivelare una stessa fonte ispiratrice :

I am the poet of the Body and I am the poet of the Soul,
The pleasures of heaven are with me and the pains of hell are with me,
The first I graft and increase upon myself, the latter I translate into a new tongue.
( Song of Myself )

Ed è appunto una “lingua nuova” la meta della ricerca del giovane poeta, una lingua che susciti come la musica vibrazioni profonde, sconvolgimenti radicali dell'anima.
Questo sperimentalismo di stile e di linguaggio rientra in pieno nella tradizione simbolista-decadente il cui padre e padrino è Arthur Rimbaud. Basti prendere in considerazione questi versi di “Bribes” :

Derrière tressautait en des hoquets grotesques
Une rose avalée au ventre du portier.

La situazione è suggerita e la nostra immaginazione la elabora autonomamente, ma dal punto di vista strettamente logico la frase non ha alcun significato. Come la musica non ci parla direttamente ma suscita in noi, nel fondo irrazionale del nostro io, una reazione emotiva di cui non sappiamo fornire una ragione, così la poesia simbolista evoca non comunica, come l'antica profezia secondo Dante :

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.

E dello spirito ribelle di Rimbaud è la sezione intitolata “ Il porco dell'arte “. Come rimandano sempre a Rimbaud i versi di p. 29 :

Illuminare e bruciare
è qualcosa di meravigliosamente verosimile

Bruciare e illuminare
è qualcosa di verosimilmente meraviglioso

dove nel gioco di parole si rivela l'ardore giovanile della scoperta, l'audacia della sfida demonica, l'ardimento di un Prometeo dissacrante.
Gli ultimi versi svelano una discesa agli inferi :

Piacere al fuoco è male
parlare di verità significa
rendere giustizia a pochi.

E anche qui viene in mente l'inferno di Rimbaud in “Nuit de l'enfer” :

J'ai avalé une fameuse gorgée de poison. - Trois fois béni soit le conseil qui m'est arrivé ! - Les entrailles me brûlent. ...

e più avanti :

Je vais dévoiler tous les mystères : mystères religieux ou naturels, mort, naissance, avenir, passé, cosmogonie, néant. Je suis maître en fantasmagories.

Anche in “Nuda” (p. 31) si tenta, con la ripetizione un po' ossessiva dell'aggettivo, di attingere l'ultimo segreto delle cose, per usare un'espressione montaliana, e non manca neppure qui l'intento dissacratorio, che però nasconde una intima, profonda aspirazione alla Purezza.
La dedica a Igino Ugo Tarchetti della poesia “Il teschio” (p. 33) ci fornisce una prova ancor più evidente di questo legame con i poeti maledetti, in questo caso gli Scapigliati della seconda metà dell'Ottocento. L'autore di Fosca, romanzo patetico-patologico, lo è anche della poesia “Memento” che viene richiamata da Kurtinovic all'inizio e alla fine in versi che riecheggiano quelli di Tarchetti. Anche qui è presente il motivo tipicamente romantico-decadente di amore e morte, bellezza e disfacimento.
Credo che anche l'atteggiamento degli Scapigliati, il loro anticonformismo e moto ribelle, abbia suscitato l'interesse del giovane poeta, ricordiamoci questi versi di “Preludio” di Emilio Praga :

Canto litane di martire e d'empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio
inginocchiati.

Canto le ebbrezze dei bagni d'azzurro,
e l'Ideale che annega nel fango …

Certo non mancano improvvise reminiscenze da altri poeti come a p. 34 “le mie quattro ossa“ richiamano l'espressione di Ungaretti ne “I fiumi”, e del resto anche il modello ungarettiano deve essere tenuto presente, soprattutto nella frantumazione del verso.
A p. 36 i versi :

Dovrai scegliere
sceglierai
tra la canna d'una pistola
ed i piedi della Croce

sono una citazione dalla recensione di Barbey d'Aurevilly all'A rebours di Huysmans. Come si può notare, i riferimenti dotti non mancano. Peccato però che nello stesso componimento frantumato si scriva “sarai la parodia d'un ombra” senza l'apostrofo all'articolo indeterminativo. Il che è senza dubbio una svista, ma assai pericolosa.
Il motivo della maschera, cui allude anche il titolo della raccolta, appare a p. 41 nella lirica “Come un arlecchino” e nella pagina seguente dove si leggono questi bellissimi versi :

Masticano la luna
nel loro Carnevale
le maschere azzurre

e volare
è morire dentro i sogni.

In his omnibus inest quidam sine ullo fuco veritatis color”, per usare una frase ciceroniana, e in effetti l'espressione qui si riduce all'essenziale, ma grazie all'analogia l'effetto è estremamente intenso. Bastano poche note per creare una melodia indimenticabile.
Altra lirica assai suggestiva è a p. 45, “E sopra il cielo vasto e vuoto” che si collega al motivo dell'aridità spirituale e della divina Indifferenza montaliana :

Sono una mosca sul soffitto
nella casa dei ragni.

Sono la parodia d'un'ombra
ahi quanta bellezza ho sprecato !

Ho un contagocce nell'anima
sotto qualche petalo viola
e sopra il cielo vasto e vuoto.

Il motivo montaliano dell'anello che non tiene, del segreto delle cose, del filo da disbrogliare appare anche a p. 55 :

Ho davvero bisogno
di parole che sappiano
sbrogliare il segreto
ed avvilire la menzogna.

I componimenti precedenti a questo esprimono il senso di desolazione e solitudine e disperazione degli abitanti della città moderna, con le sue sacche di emarginazione e ghetti per tossicodipendenti.
Le liriche seguenti non suscitano, a mio parere, molto interesse, tranne questa che fa meditare (p. 61) :

Uomini seduti alle loro finestre
avrebbero messo a fuoco le piogge
di tutti i mondi se solo avessero potuto
e se solo avessero saputo avrebbero
educato tutti i loro figli alla tempesta
alla tempesta e non ai temporali.

E abbiamo qui la sfida agli ultimi uomini, ai borghesi benpensanti, che vagheggiano una vita comoda e sicura e soprattutto lontana da quella enorme scocciatura rappresentata dal dubbio, dagli interrogativi sui motivi dell'esistere, dalla profondità del pensare.
Altre poesie aprono spiragli di luce improvvisa e istantanea sulla quotidianità, come il dialogo tra innamorati e la ragazza che (p. 63) “ si abbandonò sulla panchina – e nell'alleluia della polvere sentiva – qualcosa che le ricordò l'Amore.”
A p. 65 “Domani il sereno” sembra quasi per il contenuto assurdo una specie di limerick. Il contenuto infatti evidenzia la vacuità della vita quotidiana, nella sua gestualità e abitudinarietà senza senso.
Altri componimenti hanno un tono e un contenuto quasi oracolare e sembrano sentenze di Eraclito. Bisogna abbandonarsi alla loro suggestione.
A p. 71 “Ho sognato” pare un gioco di parole organizzato a scatole cinesi.
Nelle poesie d'amore c'è sempre la presenza della morte, inevitabile destino della vita umana, ma che sottintende sempre la minaccia del Nulla, piuttosto che una redenzione nella vita ultraterrena. Dio appare più una delle tante ipotesi che una speranza.
La piacevolezza del gioco verbale appare anche nella poesia (p. 76) “Se non ti penso”, che comunque è dotata di una sua indubbia grazia.
Le due ultime liriche pur con il loro contenuto piuttosto enigmatico tradiscono un senso di orgogliosa disperazione da bohémien, e in particolare l'ultima col pater noster finale in chiave blasfema.
Un'ultima cosa. Sopra ho accennato al tema della maschera a proposito del titolo della raccolta, cioè Le abitudini. Infatti il termine “abitudine” richiama il latino “habitus” che vale per comportamento o veste, da cui il nostro “abito”, e in genere designa l'individualità esteriore e quindi l'apparenza, la “maschera” appunto con la quale ognuno di noi si presenta e si traveste agli occhi degli altri. E' quindi presente il noto motivo pirandelliano oltre naturalmente l'allusione alla monotona e spesso piatta vita borghese di tutti i giorni. Perché chi scrive è un bohémien, un ribelle alla Rimbaud, un sovvertitore. Gli auguro di riuscirci.