Federico
De Roberto, I vicerè
(1894) in Romanzi, novelle e saggi,
Milano, Meridiani Mondadori, 1993
Sembra
sottratto ormai all'influsso di Paul Bourget, che prevale ne
L'illusione (1891).
Si tratta di un affresco senza veli rappresentante la mentalità
italiana prevalente (dall'unità in poi, tanto da essere attuale !).
Perfetta ricostruzione d'ambiente che si riflette nei personaggi, gli
esponenti della nobiltà animati di iattanza e i popolani pervasi di
ossequio reverenziale, c'è tutto il Sud, dai cafoni alla spocchia
spagnola.
Lo
stile è estremamente scorrevole e quindi l'opera si legge con
facilità, il linguaggio è quello colloquiale, una sorta di sermo
familiaris della buona borghesia.
I
personaggi sono dipinti a vivi colori secondo il temperamento
siciliano e non mancano le macchiette come don Blasco e donna
Ferdinanda. Gli ambienti sono costruiti con assoluto realismo e
rimarcano sempre il motivo del potere e della pompa, come il palazzo
dei principi Uzeda e il convento dove va a studiare il principino
Consalvo.
La
molla che fa scattare i personaggi è la sete di denaro e di potere,
chi non è dominato da questi due idoli fa la figura del babbeo, come
appunto Ferdinando. Il duca d'Oragua, zio del principe Uzeda,
rappresenta l'opportunismo d'élite pronto a vendersi al primo
vincitore pur di rimanere a galla.
Parte
seconda, cap. II, p. 718 e sg., la narrazione del matrimonio infelice
di Raimondo e Matilde, l'analisi dell'amore tormentato di
quest'ultima rivelano l'adesione allo psicologismo di Bourget, che
sembrava superato nei primi capitoli. Nel caso di De Roberto non si
può parlare di Verismo ma piuttosto di Realismo psicologico. Si
potrebbe fare un collegamento tra questo romanzo e L'esclusa
(1901) di Pirandello per quanto interessa l'analisi dei personaggi.
Parte
seconda, cap. III, l'umorismo trionfa nella rappresentazione delle
trame dei monaci a San Nicola, delle loro tresche, dei loro vizi. In
particolare rifulge quella vera macchietta che è don Blasco, una
vera esplosione di energia animale, dominata da un orgoglio ferino e
da un'avidità materiale cresciuti a dismisura in un ambiente che con
la sua apparente segregazione ha moltiplicato invece che lenire le
cupidigie e le bramosie più basse.
I
monaci benedettini fanno vita da gaudenti, mangiano a crepapelle,
bevono come spugne e fuori del convento hanno le loro mantenute
(almeno all'epoca andavano con le donne ! Cosa facciano oggi è
meglio non saperlo).
Anticipa
Pirandello nella mutevolezza degli atteggiamenti e delle idee dei
membri di casa Uzeda, come per esempio l'amore sviscerato di Lucrezia
per il marito che poi si trasforma in avversione radicale, così come
al contrario l'iniziale avversione di Chiara per il futuro marito si
trasforma in totale dedizione. “Strambi ! … Cocciuti ! … Pazzi
! …” (p. 841) questo è il giudizio reciproco che si rivolgono a
vicenda i nobili Uzeda, a seconda della convenienza indossando la
maschera del filantropo e del patriota, del dongiovanni o del prete.
Di conseguenza il loro comportamento sfocia nel paradosso, che è la
formula sfruttata e talvolta abusata dell'arte di Pirandello.
A
proposito di pazzi fa coppia con Ferdinando il babbeo l'imbrattacarte
don Eugenio, intestarditosi a comporre libri genealogici delle
famiglie nobili e che mancando di istruzione scrive in una prosa
orripilante. La sua follia lo riduce sul lastrico e va mendicando tra
i parenti sottoscrizioni e finanziamenti alla sua opera, ricevendone
puntualmente rifiuti conditi di insulti, ma senza mai perdere la
speranza.
Altro
caso patologico è quello della principessa Teresa sorella di
Consalvo, che rinunzia all'amore per il barone Giovannino Radalì
perché costretta a sposarne il fratello, duca Michele. Mentre
Consalvo è il ribelle miscredente che ripudia la famiglia per
abbracciare il libero pensiero e la vita politica, Teresa è la
santerellina che si sacrifica in tutto e per tutto e alla fine è
assillata dalla mania della santità. Si tratta veramente di una
rassegna di personaggi afflitti o dal vizio o dalla malattia mentale,
ossessionati dall'idea di dover primeggiare in ogni circostanza e in
ogni modo perché sono del sangue degli Uzeda di Francalanza, i
Vicerè.
E
a primeggiare riesce in effetti il più sano di mente di tutti, ma
anche il più subdolo e quello che assomiglia molto allo zio
cardinale, altro esempio eclatante di ipocrisia. Consalvo pur di
essere eletto deputato e tentare così la scalata al potere è
disposto a fingersi socialista e a frequentare, con un interno moto
di orrore e turandosi il naso, la compagnia dei popolani. Il suo
discorso per l'elezione a deputato è un capolavoro di ipocrisia e di
furbizia e sorprende l'argomentazione che ricorre a un nazionalismo
esasperato con la promessa demagogica di ricostituire addirittura con
la fondazione di colonie l'antico impero romano. Affermazioni che
sorprendentemente anticipano quelle di Mussolini, in un romanzo della
fine dell'Ottocento !
Una
volta eletto con pieno successo, Consalvo si reca dai parenti
cominciando dallo zio duca, che lo ha aiutato, e poi dalla sorella
Teresa, che non trova a palazzo. Quindi si reca dalla zia Ferdinanda,
gravemente malata, nella speranza di intascarne l'eredità, e innanzi
a lei, immobilizzata a letto da un acuto raffreddore, inizia un lungo
discorso apologetico per dimostrarle di non aver fatto nient'altro
che continuare la grandezza del casato e mantenerne il primato nella
società siciliana. Egli ha ragione e il succo delle sue
argomentazioni si riassume nelle parole seguenti (p. 1100) :
“La
storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e
saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; … ma la
differenza è tutta esteriore.”
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