domenica 7 luglio 2019

Federico De Roberto, I vicerè


Federico De Roberto, I vicerè (1894) in Romanzi, novelle e saggi, Milano, Meridiani Mondadori, 1993



Sembra sottratto ormai all'influsso di Paul Bourget, che prevale ne L'illusione (1891). Si tratta di un affresco senza veli rappresentante la mentalità italiana prevalente (dall'unità in poi, tanto da essere attuale !). Perfetta ricostruzione d'ambiente che si riflette nei personaggi, gli esponenti della nobiltà animati di iattanza e i popolani pervasi di ossequio reverenziale, c'è tutto il Sud, dai cafoni alla spocchia spagnola.
Lo stile è estremamente scorrevole e quindi l'opera si legge con facilità, il linguaggio è quello colloquiale, una sorta di sermo familiaris della buona borghesia.
I personaggi sono dipinti a vivi colori secondo il temperamento siciliano e non mancano le macchiette come don Blasco e donna Ferdinanda. Gli ambienti sono costruiti con assoluto realismo e rimarcano sempre il motivo del potere e della pompa, come il palazzo dei principi Uzeda e il convento dove va a studiare il principino Consalvo.
La molla che fa scattare i personaggi è la sete di denaro e di potere, chi non è dominato da questi due idoli fa la figura del babbeo, come appunto Ferdinando. Il duca d'Oragua, zio del principe Uzeda, rappresenta l'opportunismo d'élite pronto a vendersi al primo vincitore pur di rimanere a galla.
Parte seconda, cap. II, p. 718 e sg., la narrazione del matrimonio infelice di Raimondo e Matilde, l'analisi dell'amore tormentato di quest'ultima rivelano l'adesione allo psicologismo di Bourget, che sembrava superato nei primi capitoli. Nel caso di De Roberto non si può parlare di Verismo ma piuttosto di Realismo psicologico. Si potrebbe fare un collegamento tra questo romanzo e L'esclusa (1901) di Pirandello per quanto interessa l'analisi dei personaggi.
Parte seconda, cap. III, l'umorismo trionfa nella rappresentazione delle trame dei monaci a San Nicola, delle loro tresche, dei loro vizi. In particolare rifulge quella vera macchietta che è don Blasco, una vera esplosione di energia animale, dominata da un orgoglio ferino e da un'avidità materiale cresciuti a dismisura in un ambiente che con la sua apparente segregazione ha moltiplicato invece che lenire le cupidigie e le bramosie più basse.
I monaci benedettini fanno vita da gaudenti, mangiano a crepapelle, bevono come spugne e fuori del convento hanno le loro mantenute (almeno all'epoca andavano con le donne ! Cosa facciano oggi è meglio non saperlo).
Anticipa Pirandello nella mutevolezza degli atteggiamenti e delle idee dei membri di casa Uzeda, come per esempio l'amore sviscerato di Lucrezia per il marito che poi si trasforma in avversione radicale, così come al contrario l'iniziale avversione di Chiara per il futuro marito si trasforma in totale dedizione. “Strambi ! … Cocciuti ! … Pazzi ! …” (p. 841) questo è il giudizio reciproco che si rivolgono a vicenda i nobili Uzeda, a seconda della convenienza indossando la maschera del filantropo e del patriota, del dongiovanni o del prete. Di conseguenza il loro comportamento sfocia nel paradosso, che è la formula sfruttata e talvolta abusata dell'arte di Pirandello.
A proposito di pazzi fa coppia con Ferdinando il babbeo l'imbrattacarte don Eugenio, intestarditosi a comporre libri genealogici delle famiglie nobili e che mancando di istruzione scrive in una prosa orripilante. La sua follia lo riduce sul lastrico e va mendicando tra i parenti sottoscrizioni e finanziamenti alla sua opera, ricevendone puntualmente rifiuti conditi di insulti, ma senza mai perdere la speranza.
Altro caso patologico è quello della principessa Teresa sorella di Consalvo, che rinunzia all'amore per il barone Giovannino Radalì perché costretta a sposarne il fratello, duca Michele. Mentre Consalvo è il ribelle miscredente che ripudia la famiglia per abbracciare il libero pensiero e la vita politica, Teresa è la santerellina che si sacrifica in tutto e per tutto e alla fine è assillata dalla mania della santità. Si tratta veramente di una rassegna di personaggi afflitti o dal vizio o dalla malattia mentale, ossessionati dall'idea di dover primeggiare in ogni circostanza e in ogni modo perché sono del sangue degli Uzeda di Francalanza, i Vicerè.
E a primeggiare riesce in effetti il più sano di mente di tutti, ma anche il più subdolo e quello che assomiglia molto allo zio cardinale, altro esempio eclatante di ipocrisia. Consalvo pur di essere eletto deputato e tentare così la scalata al potere è disposto a fingersi socialista e a frequentare, con un interno moto di orrore e turandosi il naso, la compagnia dei popolani. Il suo discorso per l'elezione a deputato è un capolavoro di ipocrisia e di furbizia e sorprende l'argomentazione che ricorre a un nazionalismo esasperato con la promessa demagogica di ricostituire addirittura con la fondazione di colonie l'antico impero romano. Affermazioni che sorprendentemente anticipano quelle di Mussolini, in un romanzo della fine dell'Ottocento !
Una volta eletto con pieno successo, Consalvo si reca dai parenti cominciando dallo zio duca, che lo ha aiutato, e poi dalla sorella Teresa, che non trova a palazzo. Quindi si reca dalla zia Ferdinanda, gravemente malata, nella speranza di intascarne l'eredità, e innanzi a lei, immobilizzata a letto da un acuto raffreddore, inizia un lungo discorso apologetico per dimostrarle di non aver fatto nient'altro che continuare la grandezza del casato e mantenerne il primato nella società siciliana. Egli ha ragione e il succo delle sue argomentazioni si riassume nelle parole seguenti (p. 1100) :
La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; … ma la differenza è tutta esteriore.”

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