sabato 21 luglio 2012

Metamorfosi







Allora affrontò la luce del mattino, e, uscito dalla villa, si diresse verso la spiaggia.
Il mare era tranquillo e mormorava dolcemente.
Si udivano echi nell’aria di giochi femminili.
Più lontano gruppi di fanciulle si gettavano a vicenda una palla variopinta e lucente. Di fronte a lui, poco distante, una ragazza stava seduta innanzi alla battigia, in costume da bagno, coi lunghi capelli sulle spalle. Le sue braccia delicate sostenevano un dorso snello e i monili le ricadevano sui polsi. Si intravedeva qualche anello alle dita. Era bruna, pallida e bella la sua figura. Ed egli rimase a guardarla per qualche minuto, pensoso, estraneo a se stesso. E una lacrima gli colò lentamente sulla guancia, lo colse una profonda tristezza. Una lieve brezza gli carezzava le vesti e uno spirito puro invadeva il suo cuore.
Continuò a camminare lungo la riva.
Un impulso insolito lo spingeva in quel cammino. Non era più oppresso dai timori comuni, era partecipe invece della vita segreta intorno a lui, di voci inascoltate per troppo tempo, che ora penetravano in lui, serpeggiavano nel suo corpo e quasi lo plasmavano, meravigliosamente.
La via s’inoltrava nel bosco. Una musica senza suono si trasferiva dai tronchi neri, carpita per breve tratto dai trilli degli uccelli che scomparivano nell’intreccio dei rami.
Il disco del sole a intervalli era visibile tra gli archi arborei, nel cielo limpido. Il silenzio suggeriva melodie e canti dimenticati e lasciati vagare nelle selve degli antichi culti. Una pace profonda dormiva in un continuo sonno, in un respiro regolare non turbato da sogni incresciosi. Pareva che il cuore della foresta palpitasse d’un ritmo possente e ininterrotto, come il cuore d’un organismo forte, giovane e immortale.
E inerpicandosi per il sentiero gli veniva alla memoria la figura del cavaliere errante sul nero cavallo. Quell’immagine era un ricordo dell’infanzia, del mondo delle fiabe. Gli aveva già parlato l’infanzia coi simboli magici e saggi, più sapienti dell’annosa sapienza degli uomini. Gli aveva rivelato selve proibite e castelli irraggiungibili e aspri duelli e lotte contro mostri e draghi e incontri con principesse bellissime.
Ed ecco egli avvertiva la presenza del cavallo, che galoppava per la vasta boscaglia innitrendo.
La foresta si risvegliava. Una vibrazione si trasmetteva nel sottobosco e tra le foglie sui rami. Forse i sogni del passato tornavano, spiriti non placati nel sonno della morte, e s’aggiravano tra gli alberi e lo chiamavano. E lo assalse il rimpianto e tutta la catena dei ricordi. La vita gli scorreva innanzi, un’onda impetuosa, una sinfonia che comprendeva armonie di sentimenti contrastanti e sovente malinconici. Una sensazione acuta di soggiogante e inesprimibile potenza lo afferrò. Una consapevolezza greve e amara del proprio io, della sua grandezza e nello stesso tempo della sua miseria, trafisse il cuore, annebbiò la mente di lui. Egli si dissolse in quella sinfonia, egli si smarrì in quei sogni, egli vibrò nelle fibre del corpo del tremito del bosco, divenne il gemito delle foglie, l’agile timidezza degli scoiattoli, il cinguettìo degli alati, fu quello scalpito, fu l’innito echeggiante.
Chi era dunque se non ogni essere intorno a lui, se non quella luce stessa che gli scaldava il volto?
Respirò profondamente. Sentì nelle vene il calore del sangue. Esso fluiva in lui, non diversamente dai fiumi fragorosi negli alvei delle rocce.
Poco distante era un laghetto, creato dai ghiacci liquefatti, che ritraeva gli alti abeti intorno, ovale quale speculo argenteo.
Vide riflessa la propria immagine e rimase a considerare quel volto giovane, a lui estraneo, come non l’avesse mai conosciuto. E immaginò tra il verde delle piante semprevirenti figure e forme di donne appena velate, che si avvicinavano. Una di esse col viso traslucido sfiorò, oltrepassò le gote di lui. Il fantasma luminoso si confuse nell’ombre fruscianti, dietro il chiaroscuro del fogliame turbato dalla brezza.
Una voce lo suase, una melodia calma ed insieme appassionata, che a poco a poco lo imprigionò nelle sue volute. Egli sentì sul volto un ventare di forza mai esperimentata prima, e si mise a correre nella scia dei suoni. S’inoltrava, si profondava sempre più nel mistero della foresta. Essa pareva fremere, agitarsi allo spiro musicale, vivere della vita d’un essere animato. La luce intensificandosi la percorreva, scontrandosi in nodi, in gorghi accecanti.
La via, ora uno scuro meandro ora un labirinto sassoso, pareva senza meta. Ma all’improvviso terminò in una radura delimitata da pietre.
D’intorno gli alti fusti erano pervasi d’un lume alboreo, una pallente chiarità, quale dopo le tempeste o gli acquazzoni brilla il latteo splendore dell’essenza umida, ch’evapora e aleggia e permea di frescura il petto degli uomini.
Potentemente e prepotentemente lo chiamava a sé la grande Vita. Ed egli si sentiva trascinato oltre per l’interminabile sentiero arborato dove il sole filtrava i suoi raggi tiepidi, color di rame, a posarsi sui suoi passi, che avanzavano sopra gli aghi secchi dei pini e l’erba fiottante dal suolo e crespa, qua vivida e qui vizza, disseminata di pietre e di rami sottili. Un silenzio procombeva, misteriosamente denso di suoni. La solitudine lo chiamava a sé, come un tempo. La solitudine, ch’egli aveva eletto a sua patria. E a destra, verso le nubi, scorgeva, avvolto in parte da nebbie lucenti, l’alto torrione della montagna, e in basso estendersi a perdita d’occhio fin giù, nell’abisso, la selva, come un coro di voci tumultuante e sommesso, disperso nel cielo sconfinato ed azzurro. Le fronde, ora verdi e luminose, ora cupe e contorte, riecheggiavano nelle vallate il richiamo d’un Citerone tragico.
La grande Natura onnipossente dormiva. E soltanto tremava sulla sua pelle l’alito del vento su per le pendici.
Per le pendici scabrose e seminate di sassi procedeva verso la foresta sul lato della montagna.
Talvolta inciampava nelle pietre affioranti dal suolo, coperto di un manto sottile ma fitto d’erba verdastra, ove qua e là spuntavano cardi grossi e spinosi.
Qualcosa di bianco spuntava dalla terra. Lo afferrò e s’avvide ch’era un cranio di capra, quasi divorato dal tempo. Lo gettò più in basso e riprese il cammino.
Più fitta era la vegetazione e gli alberi si arcuavano sopra di lui. Il respiro si fondeva con la brezza profumata della foresta e il suo essere pareva appena uscito da uno di quei tronchi. Aveva la sensazione di percepire un brusìo in ogni cespuglio e un cinguettìo in ogni albero, e vaghi rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre in un sibilo minaccioso.
E chinò il capo sotto il tronco abbattuto nell’ampia foresta ombrosa, varcando il limite fra due rocce umide, vestite di muschio.
Come fu nella profonda pineta, scorse il raggio ove turbinava il pulviscolo d’oro sino all’alta volta delle fronde. Una luce smeraldina ammaliava il sentiero cosparso di fogliame ròrido e disseccato dall’autunno, un odore forte di rèsina si librava all’intorno mescendosi agli arbusti, tra le colonne dei pini risaltavano i frutti rubei dei corbezzoli, più in fondo salivano le rame dei castagni tra i massi colmi d’edera, discendevano dalle volte le liane spinose dei rovi.
Passò dunque oltre la porta della foresta incantata e ormai procedeva verso la cima della montagna.
E quando vi giunse, vide alla sua destra le nevi delle alpi, come una cerchia canuta, e a sinistra il mare divino, raggiante, muto e mobile, immerso nel sonno meridiano, e colse l’onda dei ricordi fra le sue mani, una ricchezza inattesa.
E il sole irradiava, splendido nella sua forza.
E a lui parve di trasformarsi lentamente in un albero, un lungo tronco nodoso ramificantesi in varie direzioni, con oblunghe e strane foglie vellutate e brillanti e infine con fiori purpurei aperti come dita. Lo pervadeva il vento, lo vellicava, e d’intorno s’effondeva un inebriante e leteo profumo.
E si augurava la vita degli alberi, puri e maestosi, inondati dal vento, dal fremito dell’alito marino, e mentre scendeva alla valle colmava gli occhi del colore delle bacche nei cespugli odorosi, assaporava lentamente il profumo insperato della giovinezza. Sentiva ancora nel sangue la scoperta del corpo propria dell’adolescenza e i turbamenti e le strane rivelazioni. Ma non era turbato, bensì acceso di rimpianto e di una malinconia mista a vaga e incosciente gaiezza. Come dolce musica e danza vibrava intorno a lui la vegetazione varia e indistinta della foresta, la voce profonda e misteriosa lo chiamava.
E giunse nell’erba alta del prato, illuminata dal giorno fra i tronchi elevati e ondeggianti.
Alzò lo sguardo e intese nel raggio di sole che calava dall’azzurro mare di luce il fluttuare degli eventi futuri, che sempre ingannano il poco senno degli uomini, un luminoso fantasma, che come un cigno si allontanava sulle acque riverberanti.
Come un cigno sulle acque riverberanti, o come il sole che tramonta, lontano sopra il mare, o che sorge possente sulle acque sulle grandi ali, il sole, simbolo del dio!
E guardò le nubi a occidente, attraversate dai raggi del sole declinante. E gli parve che una donna fosse fra quelle nubi e il vento le muovesse quasi grandi ali i lembi della veste bianca lucente. Nella vittoria della luce purpurea ella lo attendeva, splendida sul mare. E come per magia lo traeva su un vascello leggero che scivolava sulle onde velocissimamente e in un trionfo di riflessi d’oro lo conduceva ad isole lontane, su ignoti mari. E nel dolce dondolìo delle correnti giungeva alle remote Ebridi, alla grotta di Fingal, nello splendore del sogno o nella malìa invincibile del suadente Mendelssohn.
E vinto dal desiderio dell’oblio riebbe nella memoria i versi del poeta :
“ Ma tardo, al fine m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.”
E le nubi s’estendevano nel cielo, s’innalzavano in architetture fantastiche, si assottigliavano quali ponti sublimi sopra l’abisso vorticoso e fluttuante, si ritiravano come mondi lontani, inaccessibili sogni, che s’offrono alla vista solo per poco e poi scompaiono, si amalgamavano in torvi e possenti corpi di giganti pronti a crollare il loro maglio sulle nere montagne.
Ed egli s’inoltrò nell’ombra fra i grandi alberi. E si accucciò presso un alto tronco di pino, e aprì allora il suo cuore e a poco a poco si distaccò da se stesso e fu simile a un ruscello sul prato, e divenne anch’egli un puro elemento.

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