giovedì 26 giugno 2014

Fiaba romantica

In un castello della Bretagna viveva un uomo, immerso nella meditazione e nello studio. Il suo palazzo era carico di libri e di oggetti d’arte, quadri, statue, vasi e porcellane, arazzi e tappeti, coppe e piatti argentei, arpe di cedro e d’oro, cassepanche e bauli traboccanti di stoffe di seta. Le pareti del castello erano rivestite di affreschi e i soffitti a cassettoni scintillavano. Le finestre si aprivano su giardini interni ridenti d’ogni fiore che crescesse sulla terra o sopra gli alberi o sovra la superficie dell’acqua. Nel centro del giardino più vasto ondeggiava ai raggi del sole uno stagno adornato di colchici e di myosotis e di mandorli insidiosi giunti dalle rive di Trebisonda.
I cespugli di rose impregnavano l’aria del loro profumo carnale, i gigli s’ergevano intorno alle statuette di divinità boscherecce, le cui giovanili parvenze erano fermate nel nitore delle forme marmoree.
L’occhio glauco dei colchici lo immergeva nella malinconia dei ricordi.
Per distogliersi dal torpore che lo affliggeva e lo confinava in una solitudine di sogni, egli decise di accogliere una donna nella sua dimora. L’anima era sola, ed aveva perduto la lucentezza, la forza e la dolcezza, e piangeva entro se stessa, in un completo abbandono. Il silenzio era dovunque, e la luna assisteva ai suoi spasimi romantici instillando rugiada sui petali delle rose, le cui gocce cadendo nel piccolo lago turbavano le luci riflesse del cielo e le ombre degli esseri notturni, con un regolare bruire.
E quando nei pomeriggi estivi, all’ombra dei frassini e dei faggi, la sua mente vagava nei meandri dell’immaginazione e si perdeva nel logorìo roco delle fonti e dietro i roveti e fra i forti rami delle querce ove il sole si compiaceva di imbiondire il muschio quale una veste filigranata, egli avvertiva una vaga presenza al suo sguardo invisibile, ma che pure compenetrava quasi un’essenza ardua e sottile la selva trepida.
Aveva letto nel libro della Via : “ … aprirà dinanzi a te le porte delle sue camere segrete e scoprirà al tuo sguardo i tesori nascosti nel più profondo del suo puro, virgineo seno. “
E giunse, una sera, la carrozza d’ebano, slanciata, dietro tre possenti corsieri neri dalle crespe criniere quali onde di tempesta contro il lido disvelato dalla luna.
Ella discese ponendo il piede delicatamente sovra il predellino purpureo. Timidamente avanzò verso l’amante, il quale, presala per mano, la condusse entro la vasta dimora, gaudiosa ai raggi della dea notturna. Gli alti cipressi lievemente inclinavano le cime all’alito ampio e regolare dell’oceano.
E quando furono nella vasta sala del palazzo rischiarata dalla luna ed ella ebbe riversa la fronte coronata di capelli come manto sparso sul divano drappeggiato di damaschi, egli sorrise, pallido, e disse che affidava a lei la casa e ogni ricchezza poi che doveva partire per un lungo viaggio. Le consegnò una chiave d’argento, unica per tutte le stanze ed una piccola chiave arrugginita che serviva per entrare nelle gallerie del sottosuolo. Raccomandò di non usare la seconda poi che non le si addicevano luoghi tetri e maleodoranti.
Passarono quindi lunghe giornate in cui ella esplorò in ogni angolo più riposto il castello, che s’ergeva sopra un’alta rupe a picco sul mare da un lato, dall’altro si estendeva verso una ridente campagna. Le guglie delle torri si protendevano al cielo umido di piogge oceaniche come audaci alberature di nave, spirali di scale e d’archi adducevano di muro in muro, collegando fra loro con ponti sottili le camere segrete, recinte di massi colossali rivestiti di muschi e di un vivido vello di edere.
Attraverso ampie vetrate una luce soffusa e verdastra cingeva i capitelli fioriti in arabeschi vorticosi, che si perdevano lungo le pareti quasi disegno d’uno sconfinato labirinto, dove la vista indugiava posandosi come su uno stagno immoto adombrato da folte trame di rami e da fitti giunchi. Così ella si perdeva fra le colonne nei sotterranei, interminabili intercolumnii, antri dalle volte atre e brunite d’umide venature, donde gocciolava un fluido denso e dall’odore acre.
E un giorno con la chiave arrugginita schiuse una porta che inoltrava in un andito invaso da una luce abissale, sommersa nell’aria umida, per cui si perdeva il sentore di rivoli insinuantisi tra le pietre.

L’oscurità la colse e l’ombra d’una malìa l’avvolgeva e incupiva la volta della camera. Alta era e colma d’una penombra bronzea e muscosa come gli antri delle antiche sibille.
Un arco inatteso rischiarava a lato, in fondo alla parete, aprendosi sul litorale.
Si dilatava il ventre verde del mare e si traeva con ansare rauco. Le appariva la distesa grigia confondentesi nelle nubi all’orizzonte, nel vespero.
Un raggio di colore simile a rubino penetrava fra i vapori cinerei quale dardo. Per tutta la lunghezza del lido giacevano delle ombre convulsamente.
Come ella si avvicinò, rifulsero gli elmi bronzei dai fulvi cimieri e le punte delle aste e gli scudi rotondi riflessero la vampa rosseggiante del sole.
Per tutta la distesa erano rivolti nelle sabbie insanguinate guerrieri con la bocca semiaperta, gli occhi reclusi da una membrana o schiusi essudati di sangue marcio o boccioni vitrei. I corsieri feriti nitrivano scotendo le teste di crini irti di salino e di sudore, neri come la notte nell’aria purpurea del sole fugace.
Una voce aerava per la volta plumbea del cielo e diceva :
O dea genitrice dei viventi, tu che concepisci e partorisci nel dolore, madre della morte, che affidi i tuoi nati al tormento d’un’attesa perenne, che blandisci con impossibili sogni la noia padrona degli uomini, che susciti il desiderio e nutri il disprezzo, che fortifichi gli aborti ed annienti i puri di cuore, vergine sterile che gonfi la terra di vanità e di corpi putrescenti, madre dei sospiri e delle lacrime, inesausto ventre fecondato dagli spasimi della luce, o Donna figlia e sposa dell’Uomo, grembo dell’universo, mite e crudele, impassibile e pietosa, ascolta la mia preghiera.
Distruggi la stirpe dei profani e dei miscredenti che ti negano, e vieni nel mondo a riportare l’ordine originario, quando il tuo forte profeta calpestava le schiere dei vili. “
Si placò il mare come nei giorni alcionii, quando i luminosi alati appianano i flutti e i venti, quando generano, essi che traggono alimento dal mare.
Nel cielo apparve una grande aquila che planò tre volte per tre cerchi concentrici e poi vanì nell’azzurro. E allora, prima velata dalle poderose ali del rapace, si rivelò tra le nubi che la sorreggevano quale piedestallo, una donna semicoverta d’un drappo rosato adorno di chiose aurate, che poneva leggermente il braccio sinistro sopra un trono gemmato e nella mano destra stringeva uno scettro in forma d’alto fior di loto. E un pavone magnifico arcava la coda costellata d’innumerabili pupille dall’iride cangiante ad ogni minimo moto e le ventava il fianco destro ove la veste le scopriva l’anca e in parte l’ombra della nascente luce.
Una stella era su lei e ne radiava il viso ineffabile e il diadema, i cui rubini dardeggiavano bagliori ignei sulla chioma castanea quale terra nutrice di messi.
Ed ella, sorridendo dal vertice della gloria, disse :
Tu mi sei devoto. Io ti condurrò nella notte alle terre silenti quando l’oceano giace nelle profondità. Sopra le negre biade vagano le nebbie, intorno al mio tempio crescono cespi d’erica, il muschio copre i possenti macigni.
Là io sarò nella pienezza dello splendore, quale il disco d’ambra rilucente sul mare. Tu nuoterai nelle acque oscure, sugli abissi, nel ventre del drago. Una donna dai capelli notturni, dal corpo candido come marmo e ricco della vita immortale, ti cingerà parlandoti coi miei occhi. Tu giungerai a lei accompagnandoti ai miei lupi che sempre si dirigono alle regioni brumose del grigio Borea.
Tu sei il mio sacerdote, io ti ho scelto per lo spirito solitario e per le sofferenze dell’anima e del corpo che ti hanno condotto fino a me.
Uomo, chi sei tu per poter negare la vita e la morte ?
Tu hai commesso il più grande dei peccati, perché hai desiderato l’eternità.
Io sono prima di ogni cosa, io sono la madre del mondo. Figlio, tu devi giacere sopra il mio grembo e dal mio grembo devi nascere.
Io sono il dolore, la malattia, il male. Se tu mi ami, io saprò colmare il tuo cuore della bontà della realtà.
Guarda, lontano, sul lido del mare, una bimba di un anno, dai riccioli d’oro, gioca con le alghe lucenti e mormora il vento tra i riccioli d’oro, e attorno la vita fluisce immensa e terribile, intorno a lei, il centro del mondo. Alle sue piccole grida risponde il coro dei gabbiani, i suoi passi incerti accarezzano le tiepide sabbie, ecco il Signore del Cielo gioisce della sua vita.
Tu non cercare la verità del mondo, poi che il sapere non vale il gioco di un bimbo. Perché non scorgi giocare i mondi nell’eterno gioco ? “
Così disse, e l'ascoltava un uomo coperto d'un vello d'animale selvaggio. Il volto era esangue, solcato profondamente da due rughe che si disegnavano sulle guance in nere piaghe. L'ampia fronte s'evidenziava lucente sotto la capigliatura ispida che si confondeva con la barba intrisa di salsedine. Gli occhi grandi, bruni dalle sclere vistose, erano invasi dal rossore d'un incessante rammarico, che non poteva sfociare nel pianto.
Egli fissava l'orizzonte sovra un alto promontorio e innanzi s'apriva l'abisso ove si sfibravano i marosi nell'incessante lotta contro gli scogli.
E il sole, che insanguinava l'occidente, lo ammantava d'un alone di carminio, mentre la pupilla rifletteva il disco purpureo che pareva morire entro i suoi occhi.
Uno sconfinato oceano di fiamme precipitava nello spazio in un silenzio infinito. Un dio imperscrutabile, che dava vita a milioni di esseri, esultava in esplosioni di vita distruttiva. Ed esso era il segno dell'esistenza che è generata dalla morte e della morte cui la vita anela impetuosamente.
Ed egli vide intorno il mare e le foreste e il cielo e le montagne insanguinate, e la terra che s'adombrava a lutto per la perdita dello sposo, e gli animali pervasi da timore. E udì il grido d'aiuto dei morenti unirsi al coro delle voci di tutti i diecimila esseri, e udì il lamento dei malati e il pianto della disperazione, e il gemito della sofferenza a poco a poco illanguidire nel vuoto dello spazio sconfinato, e sorgere il vagito dei neonati ad oriente e invadere di nuova forza i giorni del mondo, e vide come nugoli di polvere sollevarsi le generazioni nei cieli. E il suo cuore si colmò di desolata tristezza, e disse : “ Perché devo morire ? “
E scorse Espero rifulgere sopra le montagne, l'astro cantato da poeti antichi e ispiratore dei vati di futuri millennii, quando il soffio del deserto avrà sepolto le civiltà dimenticate, se mai esisteranno ancora poeti.
E a poco a poco la luce eterna arse delle altre stelle, e le tenebre furono vinte da migliaia di soli, che si radunavano e s'immettevano in vortici immensi, che s'agglomeravano in immensi mari.
Una vita senza confini, una forza senza limiti trionfava moltiplicandosi nell'infinita possibilità delle forme, trasformandosi continuamente, incessantemente morendo e nascendo, e chiamava l'Uomo a spettatore estatico del Mistero, lo spronava e lo innalzava alla Conoscenza e al Dolore.
Mentre, assorto nei pensieri, la sua vista errava verso l'abisso e s'allontanava sul lido del mare, s'accorse d'un baleno di luce sulla battigia. E quando fu sulla spiaggia, trasse dalla sabbia una spada che non era corrosa ancora né intaccata, una lama a doppio taglio da ergere con ambedue le mani. Ammirandola in alto, distinse le membra incolori delle montagne sulle quali posava il biancore lunare. La pace custodiva nel silenzio notturno le selve maestose, e i venti tacevano per le giogaie e sulle vette, dimora dei corvi. E il silenzio del cielo lo rapiva nelle solitudini senza eco, nella quiete immobile del vuoto.
Ma un nitrito e uno scalpito lacerante l'arena lo svelse violento dal languore, gli fustigò improvviso lo spirito. Un cavallo nero, dagli occhi di fuoco, dalle froge ardenti, si precipitava in una corsa furiosa nella brezza, fra i confini della terra e del mare, tra il murmure del deserto e delle lande equoree, tra il torpore della terra e la febbre dell'oceano.
Come fu vicino, s'arrestò inarcando il dorso e minacciando nervosamente con le zampe anteriori, che dimenava quasi a colpire.
Si rizzava la criniera al soffio del vento, i suoi occhi dalle sclere rosse erano le tempeste notturne quando ossessiona la voce del tuono, come nuvole nere che divampano in una coltre di nebbie.
Egli lo montò senza trovare resistenza.
Ogni sede d'uomini, villaggio o borgata, in cui capitava, sulla groppa di quel dèmone, vi menava strage intridendo il metallo della spada negli sventurati supplichevoli, nelle mura delle fattorie, nei recinti del bestiame, nel ventre delle vacche. Dovunque travalcasse, guadagnava deserto.
Seminava il terrore e procedeva per pianure desolate, dove il fumo dei roghi incupiva il cielo.
E venne alla riva d'un grande lago. Le acque erano appena increspate dall'aura montana. Presso la sponda fioriva una siepe di rose, rosse e irrorate dalle spume dei flussi.
Ed egli sfoderò la spada e recise una rosa dallo stelo e, carpitala, la scagliò nella calma grigia delle onde. E la rosa ondeggiava nel centro del lago.

E la donna ebbe questa visione, ma, come era stata ammonita, non tornò più indietro. 



 

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