In un castello della
Bretagna viveva un uomo, immerso nella meditazione e nello studio. Il
suo palazzo era carico di libri e di oggetti d’arte, quadri,
statue, vasi e porcellane, arazzi e tappeti, coppe e piatti argentei,
arpe di cedro e d’oro, cassepanche e bauli traboccanti di stoffe di
seta. Le pareti del castello erano rivestite di affreschi e i
soffitti a cassettoni scintillavano. Le finestre si aprivano su
giardini interni ridenti d’ogni fiore che crescesse sulla terra o
sopra gli alberi o sovra la superficie dell’acqua. Nel centro del
giardino più vasto ondeggiava ai raggi del sole uno stagno adornato
di colchici e di myosotis e di mandorli insidiosi giunti dalle rive
di Trebisonda.
I cespugli di rose
impregnavano l’aria del loro profumo carnale, i gigli s’ergevano
intorno alle statuette di divinità boscherecce, le cui giovanili
parvenze erano fermate nel nitore delle forme marmoree.
L’occhio glauco dei
colchici lo immergeva nella malinconia dei ricordi.
Per distogliersi dal
torpore che lo affliggeva e lo confinava in una solitudine di sogni,
egli decise di accogliere una donna nella sua dimora. L’anima era
sola, ed aveva perduto la lucentezza, la forza e la dolcezza, e
piangeva entro se stessa, in un completo abbandono. Il silenzio era
dovunque, e la luna assisteva ai suoi spasimi romantici instillando
rugiada sui petali delle rose, le cui gocce cadendo nel piccolo lago
turbavano le luci riflesse del cielo e le ombre degli esseri
notturni, con un regolare bruire.
E quando nei pomeriggi
estivi, all’ombra dei frassini e dei faggi, la sua mente vagava nei
meandri dell’immaginazione e si perdeva nel logorìo roco delle
fonti e dietro i roveti e fra i forti rami delle querce ove il sole
si compiaceva di imbiondire il muschio quale una veste filigranata,
egli avvertiva una vaga presenza al suo sguardo invisibile, ma che
pure compenetrava quasi un’essenza ardua e sottile la selva
trepida.
Aveva letto nel libro
della Via : “ … aprirà dinanzi a te le porte delle sue camere
segrete e scoprirà al tuo sguardo i tesori nascosti nel più
profondo del suo puro, virgineo seno. “
E giunse, una sera, la
carrozza d’ebano, slanciata, dietro tre possenti corsieri neri
dalle crespe criniere quali onde di tempesta contro il lido disvelato
dalla luna.
Ella discese ponendo il
piede delicatamente sovra il predellino purpureo. Timidamente avanzò
verso l’amante, il quale, presala per mano, la condusse entro la
vasta dimora, gaudiosa ai raggi della dea notturna. Gli alti cipressi
lievemente inclinavano le cime all’alito ampio e regolare
dell’oceano.
E quando furono nella
vasta sala del palazzo rischiarata dalla luna ed ella ebbe riversa la
fronte coronata di capelli come manto sparso sul divano drappeggiato
di damaschi, egli sorrise, pallido, e disse che affidava a lei la
casa e ogni ricchezza poi che doveva partire per un lungo viaggio. Le
consegnò una chiave d’argento, unica per tutte le stanze ed una
piccola chiave arrugginita che serviva per entrare nelle gallerie del
sottosuolo. Raccomandò di non usare la seconda poi che non le si
addicevano luoghi tetri e maleodoranti.
Passarono quindi lunghe
giornate in cui ella esplorò in ogni angolo più riposto il
castello, che s’ergeva sopra un’alta rupe a picco sul mare da un
lato, dall’altro si estendeva verso una ridente campagna. Le guglie
delle torri si protendevano al cielo umido di piogge oceaniche come
audaci alberature di nave, spirali di scale e d’archi adducevano di
muro in muro, collegando fra loro con ponti sottili le camere
segrete, recinte di massi colossali rivestiti di muschi e di un
vivido vello di edere.
Attraverso ampie vetrate
una luce soffusa e verdastra cingeva i capitelli fioriti in arabeschi
vorticosi, che si perdevano lungo le pareti quasi disegno d’uno
sconfinato labirinto, dove la vista indugiava posandosi come su uno
stagno immoto adombrato da folte trame di rami e da fitti giunchi.
Così ella si perdeva fra le colonne nei sotterranei, interminabili
intercolumnii, antri dalle volte atre e brunite d’umide venature,
donde gocciolava un fluido denso e dall’odore acre.
E un giorno con la chiave
arrugginita schiuse una porta che inoltrava in un andito invaso da
una luce abissale, sommersa nell’aria umida, per cui si perdeva il
sentore di rivoli insinuantisi tra le pietre.
L’oscurità la colse e
l’ombra d’una malìa l’avvolgeva e incupiva la volta della
camera. Alta era e colma d’una penombra bronzea e muscosa come gli
antri delle antiche sibille.
Un arco inatteso
rischiarava a lato, in fondo alla parete, aprendosi sul litorale.
Si dilatava il ventre
verde del mare e si traeva con ansare rauco. Le appariva la distesa
grigia confondentesi nelle nubi all’orizzonte, nel vespero.
Un raggio di colore simile
a rubino penetrava fra i vapori cinerei quale dardo. Per tutta la
lunghezza del lido giacevano delle ombre convulsamente.
Come ella si avvicinò,
rifulsero gli elmi bronzei dai fulvi cimieri e le punte delle aste e
gli scudi rotondi riflessero la vampa rosseggiante del sole.
Per tutta la distesa erano
rivolti nelle sabbie insanguinate guerrieri con la bocca semiaperta,
gli occhi reclusi da una membrana o schiusi essudati di sangue marcio
o boccioni vitrei. I corsieri feriti nitrivano scotendo le teste di
crini irti di salino e di sudore, neri come la notte nell’aria
purpurea del sole fugace.
Una voce aerava per la
volta plumbea del cielo e diceva :
“ O dea genitrice dei
viventi, tu che concepisci e partorisci nel dolore, madre della
morte, che affidi i tuoi nati al tormento d’un’attesa perenne,
che blandisci con impossibili sogni la noia padrona degli uomini, che
susciti il desiderio e nutri il disprezzo, che fortifichi gli aborti
ed annienti i puri di cuore, vergine sterile che gonfi la terra di
vanità e di corpi putrescenti, madre dei sospiri e delle lacrime,
inesausto ventre fecondato dagli spasimi della luce, o Donna figlia e
sposa dell’Uomo, grembo dell’universo, mite e crudele,
impassibile e pietosa, ascolta la mia preghiera.
Distruggi la stirpe dei
profani e dei miscredenti che ti negano, e vieni nel mondo a
riportare l’ordine originario, quando il tuo forte profeta
calpestava le schiere dei vili. “
Si placò il mare come nei
giorni alcionii, quando i luminosi alati appianano i flutti e i
venti, quando generano, essi che traggono alimento dal mare.
Nel cielo apparve una
grande aquila che planò tre volte per tre cerchi concentrici e poi
vanì nell’azzurro. E allora, prima velata dalle poderose ali del
rapace, si rivelò tra le nubi che la sorreggevano quale piedestallo,
una donna semicoverta d’un drappo rosato adorno di chiose aurate,
che poneva leggermente il braccio sinistro sopra un trono gemmato e
nella mano destra stringeva uno scettro in forma d’alto fior di
loto. E un pavone magnifico arcava la coda costellata d’innumerabili
pupille dall’iride cangiante ad ogni minimo moto e le ventava il
fianco destro ove la veste le scopriva l’anca e in parte l’ombra
della nascente luce.
Una stella era su lei e ne
radiava il viso ineffabile e il diadema, i cui rubini dardeggiavano
bagliori ignei sulla chioma castanea quale terra nutrice di messi.
Ed ella, sorridendo dal
vertice della gloria, disse :
“ Tu mi sei devoto. Io
ti condurrò nella notte alle terre silenti quando l’oceano giace
nelle profondità. Sopra le negre biade vagano le nebbie, intorno al
mio tempio crescono cespi d’erica, il muschio copre i possenti
macigni.
Là io sarò nella
pienezza dello splendore, quale il disco d’ambra rilucente sul
mare. Tu nuoterai nelle acque oscure, sugli abissi, nel ventre del
drago. Una donna dai capelli notturni, dal corpo candido come marmo e
ricco della vita immortale, ti cingerà parlandoti coi miei occhi. Tu
giungerai a lei accompagnandoti ai miei lupi che sempre si dirigono
alle regioni brumose del grigio Borea.
Tu sei il mio sacerdote,
io ti ho scelto per lo spirito solitario e per le sofferenze
dell’anima e del corpo che ti hanno condotto fino a me.
Uomo, chi sei tu per poter
negare la vita e la morte ?
Tu hai commesso il più
grande dei peccati, perché hai desiderato l’eternità.
Io sono prima di ogni
cosa, io sono la madre del mondo. Figlio, tu devi giacere sopra il
mio grembo e dal mio grembo devi nascere.
Io sono il dolore, la
malattia, il male. Se tu mi ami, io saprò colmare il tuo cuore della
bontà della realtà.
Guarda, lontano, sul lido
del mare, una bimba di un anno, dai riccioli d’oro, gioca con le
alghe lucenti e mormora il vento tra i riccioli d’oro, e attorno la
vita fluisce immensa e terribile, intorno a lei, il centro del mondo.
Alle sue piccole grida risponde il coro dei gabbiani, i suoi passi
incerti accarezzano le tiepide sabbie, ecco il Signore del Cielo
gioisce della sua vita.
Tu non cercare la verità
del mondo, poi che il sapere non vale il gioco di un bimbo. Perché
non scorgi giocare i mondi nell’eterno gioco ? “
Così disse, e l'ascoltava
un uomo coperto d'un vello d'animale selvaggio. Il volto era esangue,
solcato profondamente da due rughe che si disegnavano sulle guance in
nere piaghe. L'ampia fronte s'evidenziava lucente sotto la
capigliatura ispida che si confondeva con la barba intrisa di
salsedine. Gli occhi grandi, bruni dalle sclere vistose, erano invasi
dal rossore d'un incessante rammarico, che non poteva sfociare nel
pianto.
Egli fissava l'orizzonte
sovra un alto promontorio e innanzi s'apriva l'abisso ove si
sfibravano i marosi nell'incessante lotta contro gli scogli.
E il sole, che
insanguinava l'occidente, lo ammantava d'un alone di carminio, mentre
la pupilla rifletteva il disco purpureo che pareva morire entro i
suoi occhi.
Uno sconfinato oceano di
fiamme precipitava nello spazio in un silenzio infinito. Un dio
imperscrutabile, che dava vita a milioni di esseri, esultava in
esplosioni di vita distruttiva. Ed esso era il segno dell'esistenza
che è generata dalla morte e della morte cui la vita anela
impetuosamente.
Ed egli vide intorno il
mare e le foreste e il cielo e le montagne insanguinate, e la terra
che s'adombrava a lutto per la perdita dello sposo, e gli animali
pervasi da timore. E udì il grido d'aiuto dei morenti unirsi al coro
delle voci di tutti i diecimila esseri, e udì il lamento dei malati
e il pianto della disperazione, e il gemito della sofferenza a poco a
poco illanguidire nel vuoto dello spazio sconfinato, e sorgere il
vagito dei neonati ad oriente e invadere di nuova forza i giorni del
mondo, e vide come nugoli di polvere sollevarsi le generazioni nei
cieli. E il suo cuore si colmò di desolata tristezza, e disse : “
Perché devo morire ? “
E scorse Espero rifulgere
sopra le montagne, l'astro cantato da poeti antichi e ispiratore dei
vati di futuri millennii, quando il soffio del deserto avrà sepolto
le civiltà dimenticate, se mai esisteranno ancora poeti.
E a poco a poco la luce
eterna arse delle altre stelle, e le tenebre furono vinte da migliaia
di soli, che si radunavano e s'immettevano in vortici immensi, che
s'agglomeravano in immensi mari.
Una vita senza confini,
una forza senza limiti trionfava moltiplicandosi nell'infinita
possibilità delle forme, trasformandosi continuamente,
incessantemente morendo e nascendo, e chiamava l'Uomo a spettatore
estatico del Mistero, lo spronava e lo innalzava alla Conoscenza e al
Dolore.
Mentre, assorto nei
pensieri, la sua vista errava verso l'abisso e s'allontanava sul lido
del mare, s'accorse d'un baleno di luce sulla battigia. E quando fu
sulla spiaggia, trasse dalla sabbia una spada che non era corrosa
ancora né intaccata, una lama a doppio taglio da ergere con ambedue
le mani. Ammirandola in alto, distinse le membra incolori delle
montagne sulle quali posava il biancore lunare. La pace custodiva nel
silenzio notturno le selve maestose, e i venti tacevano per le
giogaie e sulle vette, dimora dei corvi. E il silenzio del cielo lo
rapiva nelle solitudini senza eco, nella quiete immobile del vuoto.
Ma un nitrito e uno
scalpito lacerante l'arena lo svelse violento dal languore, gli
fustigò improvviso lo spirito. Un cavallo nero, dagli occhi di
fuoco, dalle froge ardenti, si precipitava in una corsa furiosa nella
brezza, fra i confini della terra e del mare, tra il murmure del
deserto e delle lande equoree, tra il torpore della terra e la febbre
dell'oceano.
Come fu vicino, s'arrestò
inarcando il dorso e minacciando nervosamente con le zampe anteriori,
che dimenava quasi a colpire.
Si rizzava la criniera al
soffio del vento, i suoi occhi dalle sclere rosse erano le tempeste
notturne quando ossessiona la voce del tuono, come nuvole nere che
divampano in una coltre di nebbie.
Egli lo montò senza
trovare resistenza.
Ogni sede d'uomini,
villaggio o borgata, in cui capitava, sulla groppa di quel dèmone,
vi menava strage intridendo il metallo della spada negli sventurati
supplichevoli, nelle mura delle fattorie, nei recinti del bestiame,
nel ventre delle vacche. Dovunque travalcasse, guadagnava deserto.
Seminava il terrore e
procedeva per pianure desolate, dove il fumo dei roghi incupiva il
cielo.
E venne alla riva d'un
grande lago. Le acque erano appena increspate dall'aura montana.
Presso la sponda fioriva una siepe di rose, rosse e irrorate dalle
spume dei flussi.
Ed egli sfoderò la spada
e recise una rosa dallo stelo e, carpitala, la scagliò nella calma
grigia delle onde. E la rosa ondeggiava nel centro del lago.
E la donna ebbe questa
visione, ma, come era stata ammonita, non tornò più indietro.
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