sabato 1 novembre 2014

Misandra, cap. 9

Al ritorno, mentre percorreva il viale, tra i fiori e le piante ombrose, vide innanzi alla porta una bambola abbandonata che lo fissava con occhi azzurri vividi e vitrei, coronata di ricci d’oro e di nastri rossi, vestita di raso verde. Come un idolo, custode del tempio, se ne stava all’entrata. E la porta, di legno scuro, pareva celare segreti e un mondo ignoto.
Ricordò che Misandra, appena uscita dal collegio, era stata affidata al conte, come appunto una bambola tolta di recente dalla vetrina d’una bottega di giocattoli, e il marito l’aveva idoleggiata e coccolata proprio come si fa d’un dono vagheggiato per lungo tempo, e gelosamente custodita. E in effetti, quasi a confermare il simbolo, la stanza prediletta da Misandra era piena di bambole, sui divani, negli armadi e sovra mensole alle pareti. E la bambola dagli occhi immobili e glaciali lo teneva alla soglia, lo impietriva come Medusa.
Come gli era impedita ormai l’entrata alla villa, Mauro decise di recarsi alla spiaggia, poi che il sole ancora tiepido si coricava mollemente sulle acque e sopra le ombrate riviere.
Quando fu alla riva udì una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue, dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante, quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili, soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava, maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la notte.
Sopra marmi puri, statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima, dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava intorno alle gambe.
In una seconda icona, in primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso, dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata, schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile, lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda, quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “ Giuditta “.
In un’alcova intima, tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo, dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma, scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra, collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste, che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea, l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il profumo e sognare.
Sotto i raggi filtrati fra i rami fronzuti s’estendevano tappeti di fiori rossi, papaveri forse o tulipani, tappeti di fiori purpurei o color ciclamino, dovunque variamente sfumati alla luce sinuosa. Attraversava la foresta dagli alti tronchi bruni, e, tra le sagome degli abeti avvolti dalla nebbia, saliva alla vetta, verso i bianchi ghiacciai. Le nebbie si diradavano e appariva l’immenso dorso irto d’abeti lucenti, e udiva il canto dei ruscelli perdersi nell’infinito sogno. Tra le gore limpida luceva l’acqua gorgogliante, e, in alto, le nubi rade transitavano, passeggere curiose, e svanivano. Scendeva al sentiero variamente maculato d’ombre e di luci, poi passava per un boschetto di querce frondeggianti, e divagava di via in via, ora dirigendosi verso la valle, ora risalendo, ora soffermandosi a mirare il paesaggio, ora affrettando il passo. Nel silenzio si estendevano le catene dei monti, sopra le nubi, nell’aria più pura d’un cielo sopra il cielo. Erano veramente la dimora degli dei ? A che altro era nato se non che ad innalzare l’anima a quel cielo puro e azzurro, in una solitudine inviolabile ?
E intorno, sul bosco schiarito dal pallore di migliaia di anemoni, soffiavano i venti gelidi dell’inverno sopra i rami agitati dagli sbuffi, e la corrente carpiva il sentore dei narcisi, che flettevano il capo quasi tenere fanciulle etiche, minate dal freddo mortale. Procedeva allora nella foresta, alla deriva come un’imbarcazione liberata dall’ormeggio, fino a che, colpito dal colore giallo vivace dei gelsomini, s’arrestò innanzi a un casolare di pietra, che n’era adorno.
S’appoggiò al tronco d’un giovane pino che fremeva al vento come dotato di vita animale, mentre il sole illuminava la casupola, ricoperta di un mantello di muschio. Nel cielo una solitaria nube nera s’elevava come una torre in fronte al sole possente. La massa grigia s’attenuava e svaporava in alto in un baratro di luce ignota. Quali mondi s’estendevano al di là di quelle mura ? Forse i sogni negati alla giovinezza, liberati dall’incantesimo dell’esistenza, s’avvicendavano in un incessante prodigio. Sciolti i legami della misera vita, egli avrebbe potuto laggiù esplicare l’infinito potere dell’animo e della fantasia senza confini.
Sin dalla prima giovinezza il suo spirito non camminava insieme alle anime degli uomini, né guardava sopra la terra con umani occhi, la sete della loro ambizione non era la sua, né lo era lo scopo della loro esistenza. Le sue gioie, i suoi dolori lo rendevano uno straniero, egli non aveva simpatia per la carne umana, la sua gioia vera era nella natura selvaggia, nel respiro dell’aria aspra delle vette innevate, dove neppure gli uccelli hanno il nido e donde soltanto scaturiscono dalla loro culla i getti dorati delle sorgenti, precipitandosi in luminose cascate nell’aria frizzante del mattino.
Era dentro di lui una forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell’oscurità, nel deserto dell’esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine, senza alcuna gioia.
Sul suo volto si scorgevano ormai i segni del male. I suoi occhi erano colmi di una febbre velata a tratti da ombre di quiete che pareva spegnerli per poi accenderli di una acuta ansia, di un sorriso talvolta, freddo come un ghigno.
Egli era un essere solitario, isolato, oscuro, immerso in un sogno d’odio, d’orgoglio inappagato, in un esilio disumano.
Le teorie delle regine maledette lo circuivano dietro le lusinghe del serpente, chimere mortali, terribili, delle acque insondabili, degli spazi inviolati, delle ombre e dei sogni, che coprono con le loro volute insidiose il fondo della nostra vita, del Mistero.
E il Mistero si rivelava dopo i primi smarrimenti. Egli era consapevole ormai che, oltre le immagini ingannevoli che parevano deviarlo per la via della vita, una irresistibile forza agiva in lui come un destino.
E quella forza era lui stesso, nella violenta volontà di essere se stesso, nella brama di vivere la sua vita, specchio di se stesso.
Sentiva la propria solitudine e l’esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Si volse a contemplare da lontano la piana delle correnti cerulee. La sua pupilla si perdette in orizzonti sconosciuti, per i quali aveva osato il viaggio nella stagione della sua primavera, isole immense trionfanti di intrichi selvosi e di labirinti turriti e d’arditi archi su vertiginosi baratri.
Ove aveva corso coi centauri sulla riva del mare mugghiante e al vento acre, ove aveva assistito alla furia dell’eroe contro lo Scamandro, o al volo dei corvi di Odin, gracchianti tra le nubi porfiree nei tramonti boreali, o al tuono e agl’inni tenebrosi delle vergini guerriere, ascese nel turbine della tempesta, laggiù voleva tornare.
Un alone violaceo lo cinse, poi che il sole all’orizzonte declinava dietro un velo di amaranto. I gabbiani volteggiavano fra i vapori nell’indaco della veste ombrosa.
Sopra la collina, che invadeva le onde come un’immensa testuggine, era un fiore bianco.
Presto un agile centauro dalla chioma fluida che si smarriva nel vello bruno del petto e gli inondava le spalle, una virente criniera lungo il dorso arcuato, balzò sino alla cima, rotando la coda come un flagello. Sorreggeva col braccio destro un corpo pallido, esangue, sul quale s’allungava un manto verde lucente, quali sono le sponde delle fonti nei campi solitari, ove cresce l’agnocasto e il lauro, e sull’orlo del manto una lista scarlatta di crisantemi declinava per le gambe eburnee. L’anca era stretta dalla mano nervosa del centauro e il torace poggiava sovra l’omero destro del vasto animale, il capo adagiato alla gota sinistra aveva la bocca socchiusa, livide le labbra. Una corona d’alloro era sulla fluente chioma castana, striata di venature dorate. Pareva trasumanato nell’effusione dell’ultimo canto, celebrato il sogno estremo. Un sangue nero colava sulla carne di neve, sotto le ciglia dormivano i suoi occhi.
Il centauro lo conduceva alla sede degli dei beati ove si perpetua la giovinezza, per poi nascondersi nuovamente nell’oscurità delle foreste.
Nelle foreste, dove rombano i fiumi e imperversano i venti, esso galoppa furente di forza e la sua voce s’unisce a quella di tutti gli esseri, divini e ferini. La sua voce è una eco della possente voce dell’Oceano dei secoli antichi, la sua forza serve il dominio del grande Dioniso.
Ormai il sangue del cielo s’effondeva intorno al disco del sole, e le montagne si coloravano di cupo azzurro e confondevano le loro pendici col mare.
Lungi s’alluminavano le minuscole città, ignare.
E i timori degli uomini morivano nelle loro tane, inesperti del terrore sconfinato che urla sovra le rupi dei precipizi, che sibila sulle cime, che schianta gli anfratti dei promontori. Lo conoscono le aquile, che di tanto superano gli uomini, e le volpi che li ingannano, i camosci audaci e le vigili marmotte pronte alla fuga.
E così moriva nel vasto tramonto il poeta, il suo sangue s’univa al sangue del crepuscolo che si sfibrava in striature, in velami tinti di ciclamino, sottesi d’un’orditura d’oro.
Ma lontano, nella città, la paura si coricava nella notte degli uomini.


Nessun commento:

Posta un commento