martedì 21 febbraio 2012

Fortuna, imperatrix mundi




Un cigno scivolava sulle acque plumbee. Nell’oscurità risaltava la sagoma bianca, alla luce della luna. Così scivolava la sua immaginazione per le remote contrade del desiderio. Sognava un mondo di sogni, come sempre.
Coricato sul letto, era avvolto da un alone misterioso, un velo, una nebbia bianca e splendente. Era già pronto per il lungo viaggio ?
Come al solito non si rivelava pienamente a se stesso. Rimaneva incompiuto e attendeva sempre che un evento esterno, una forza estranea gli rivelasse un aspetto del suo spirito che fino ad allora egli aveva ignorato. Era mentalmente pigro, come un ciottolo giacente sul fondo del ruscello che può smuovere soltanto il maggiore impeto della corrente, così era, un essere inerte ma sempre mutevole.
Occasionali compagnie, amici d’un giorno o poco più, negli anni giovanili avevano un poco smosso quel sasso. Ora, avendo appreso chi era, anche in parte, considerava se stesso con stupore. Non era certamente come gli altri, ma apparteneva, per così dire, ad una razza diversa.
La vita lo chiamava, insistentemente, prepotentemente.
Si sentiva ordinato a un nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero pensato, non potevano che avere un’idea vaga e terribile.
Sulla spiaggia correva il suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, come un corsiero anelava ad orizzonti di promesse, a sogni che si perdevano in ogni lontano tramonto.
Avanzava entro foreste millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie montuose. Quale corsiero, sentiva pulsare più forte il cuore. Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e roccioso di quelle alte montagne, dove s’udiva soltanto il vasto respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano dall’inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della corsa, si arrestò presso il tronco d’un alto larice. E all’ombra dell’essere silvano riposando, s’addormentò e di nuovo continuò a correre tra nuovi sogni. E vide una figura di donna che fuggiva, e aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida. Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d’una valle notturna cinta di rupi. I capelli brillavano al lume della luna, che pareva tingersi di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra grandiosi ruderi d’un antico tempio, le cui mura ed arcate erano rivestite d’un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere che tremolavano alla brezza. Alte, massicce, imponenti le rovine ricevevano sull’ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano l’ombra cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi, volgendosi al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi, che roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori. Mentre avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò, gorgogliando insieme ai rospi della vicina palude una sorta d’inno incomprensibile che s’alzava al cielo come il borbottio di mille pignatte ribollenti.
Come entrò nella navata, echeggiò il murmure marino. Le parve che ogni altare brulicasse di devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori dell’incenso, vagava quale nebula per la cavità innervata di colonne e d’archi a ogiva, che scandivano l’ampio spazio prolungantesi verso l’abside. Su ogni altare ogni dolce passione si dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s’intravvedeva il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole. Allora s’avvertiva un gemito sordo, assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la balaustra di porfido, scintillava d’oro e di gemme un trono. Una donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. Gli occhi grigi erano profondi e freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell’amore.

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