venerdì 24 febbraio 2012

Il leone





Si trovava sulla riva di un fiume.
Intorno sotto i pioppi s’estendeva un mosaico di piante multicolori : ligustri e caprifogli, vitalbe, candide campanelle, trifogli bianchi, rosei, rubri, rosate centauree, euforbie dal latteo umore, convolvuli, bottoni d’oro, margherite e gerani. La corrente spumeggiava tra i sassi e lanciava sprazzi e gocce d’acqua montana, e le libellule svolazzavano sopra l’acqua sfiorandola e soffermandosi di tanto in tanto sulle foglie di menta. I fiorellini dei ranuncoli acquatici sorgendo a fior dell’elemento, laddove il fiume stazionava in ampie conche, apparivano quali minute sfere di cristallo, avvolti com’erano in bollicine d’aria, e accanto ad essi galleggiavano le lenticchie palustri. E quando il fiume s’allargava e si riposava in curve e dolci insenature, sì da formare quasi un lago, la luce del sole vi si specchiava liberamente e il riverbero dalle acque, unendosi alla luminosità aerea, si versava sui fianchi arborati dei monti, più vivamente rilucendo nelle zone spoglie e rocciose, e così l’acque e le foreste parevano d’oro e gli abeti meravigliose vampe ardenti. E la terra assolata ammutoliva nel vasto silenzio di Pan.
Sulle rive crescevano cedri giganteschi che protendevano le fronde sulle acque mormoranti e adombravano larghe foglie verdecupo di piante ignote dal fiore violaceo, profumato, schiuso come una coppa pronta a ricevere la pioggia del cielo, alte canne ondeggiavano alla brezza e nascondevano nidi di alati pescatori. Gigli variopinti, bianchi, rossi, punteggiati e sfumati, adornavano il praticello, mentre nelle zone ove la corrente cessava e si formavano piccoli porti quieti, le ninfee mostravano i fiori bianchi e gialli accanto alle larghe foglie natanti. Ma più innanzi il fiume precipitava per cascate aperte sull’abisso, e le spume si frangevano, magli sprigionanti scintille, su rocce millenarie fendute dall’urto incessante del corso fragoroso e possente, che scendeva inesorabile lungo i canali maggiori e minori, scavati nei macigni, e qual fiume di lava incandescente si gettava a capofitto di rupe in rupe fino a gorgogliare alla base della montagna e a placarsi in un diverso e solenne cammino.
E nella selva fitta e oscura e cieca si mise dentro, in segreti meandri, fluendo tra rive nascoste da un vello lussureggiante, e sui rami di alberi secolari e giganteschi assordavano migliaia di pappagalli, tucani, cacatua, upupe, uccelli del paradiso dalle lunghe code e dal piumaggio multicolore, uccelli dalla coda in forma di lira, altri dai larghi collari gialli simili ai collari inamidati in uso nel Seicento, alcuni dalle due tremanti antenne sopra il capo, altri dai lati coverti da setosi filamenti agitantisi alla brezza, altri ancora dalla pettorina lucente di scaglie argentee, e alcuni dagli imperiosi sopraccigli severi, e questi alati colmavano la volta arborea di cinguettii, di fischi, di starnazzii, di sibili, di vagiti, di trilli, di borbottii, di gracchii, di stridii, di squilli e schianti subitanei che laceravano le orecchie.
Un’aria greve inumidiva i tronchi delle piante pletoriche e si diffondeva un vapore pregno di odori soavi e di sentori contrari di vegetazione putrescente, quasi il sudore della foresta o l’atmosfera soffocante d’un bagno turco, e si smarriva nel dedalo inestricabile dei banani, delle adausonie e delle palme, vellicando la corolla sontuosa delle orchidee. E poi ruotava su se stessa e veniva inghiottita da un’apertura inattesa della roccia muschiosa, e, precipitata nel gorgo, si condensava sulle pareti petrose in gocce pesanti e dense quali di un balsamo.
La grotta echeggiava, a intervalli, di un ruggito rabbioso proveniente dall’oscurità dell’interno.
A questo terrificante segnale seguiva un rantolo sommesso, un respiro minaccioso, e l’immane belva usciva all’aperto in una luce opaca quale sotto un cielo plumbeo foriero di tempesta.
Gli occhi fulvi e lucidi cangiavano nelle ombre e nei fasci dei raggi simili a bagliori di fiamme o riflessi di quarzo imbiondito da lumi improvvisi, la pupilla si dilatava nell’ira, e l’iride era un vortice di voluttà crudele, un fluttuare torbido, dopo il fortunale scatenato, che s’illumina, al rifrangersi del tramonto nelle acque grige, d’un verde giallo striato di ruscelli di sangue.
Il leone si parò innanzi, immenso, con le fauci aperte in un ruggito, pronto a dilaniare. Le zampe poggiavano sul suolo potenti, con gli artigli protesi a guisa di uncini.
Ma nella bestialità feroce una traccia pareva rivelarsi della crudeltà umana, e quelle membra suggerivano fianchi ed arti di un uomo gigantesco, di forsennata audacia, i cui pensieri fossero cangiati in un beveraggio di bile e in allucinazioni di vendetta.     



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