sabato 11 febbraio 2012

La luna





Gli parve che il suo corpo immoto si allontanasse alla deriva in una barca nera senza remi né vela, come una bara. La chiglia gorgogliava sovra l’elemento denso, una palude appena schiarita da una luce malata. Gli parve che quella palude non avesse fine.
E nera alitava la notte e la spuma e i vapori incalzavano i fianchi del legno, incubi e spettri sotto il volto incredulo della luna.
La luna si rifletteva, pallida come una donna isterica, sul deserto liquido. I venti del sud inaridivano i fiori dei giardini. Si sfibravano le corolle e marcivano le foglie nelle fontane occluse ed impure.
La luna fissava una desolazione di rocce e di zolle disseccate, una vampa mortale soffocava ogni anelito. Il suo volto rifletteva il pallore della luna, ove si specchiava sulla riva del mare una donna dai lunghi capelli, come manto di ombre. Un velo violetto incupiva le sue palpebre inferiori, la chioma le oscurava il collo, scendendo morbidamente sulle spalle. Le sue pupille parevano volte all’astro delle tenebre, un’atmosfera fosforica la cingeva in un abbraccio.
Come un fiore notturno la luna inebriava di sé il mare tumultuoso e vasto quanto il desiderio degli uomini, una malìa si librava sovra le spume.
Quel morbido candore, quale di pelle bianca e profumata, la incoronava. L’iride verde dei suoi occhi riluceva similmente al grembo ignoto delle foreste quando è violato dai raggi diurni o alla palude di terre nebbiose quando il sole rompe il cielo plumbeo o agli occhi verdi dei gatti quando gemono sedotti dalla luna.
Ella osservava la pianura del mare biancheggiare sotto la luna, specchio dello specchio del sole, e i suoi occhi come smeraldi erano accesi d’una luce misteriosa e in essi si protraeva la vita infinita di quell’immenso respiro glauco.
Era forse un angelo sorto dalle acque, che ha conosciuto i segreti della tomba e ha dimorato in mari profondi insieme al suo giorno tramontato e i suoi occhi sono colmi, come abissi, di tutte le distruzioni del mondo e le sue palpebre sono stanche di tutte le passioni e le bellezze morte, ed ella è antica più delle rupi sulle quali posa il suo piede ?
Aveva il suo piede sfiorato i gigli delle valli, e aveva deterso il suo corpo avvolta nelle correnti generate senza posa dalle montagne e si era coricata sovra i fiori anelanti dall’oscurità della terra, e la sua mano aveva rapito i frutti dalla vita dei rami, e la sua bocca aveva morso la loro ricchezza.
Aveva il suo piede varcato la soglia della morte e aveva condotto la barca delle anime sopra il mare tinto di sangue ad un’isola senza nome, corsa dallo strepito degli avvoltoi. E la chiglia solcava quel mare violaceo quale sangue corrotto, e i dannati gemevano, naufraghi nell’ombra. E imploravano, e imprecavano, dispersi fra i gorghi, e chiamavano inutilmente.
Era la luna che l’aveva resa così pallida, un sentore divino l’avviluppava in un vapore sottile. Le sue pupille miravano al di là degli spazi terrestri. Nella notte profonda il suo respiro era il gemito delle fonti nei boschi e il pianto della brina sull’erba dei maggesi, e il mormorio delle acque e dei venti per le giogaie, e una fuga nelle nebbie sovra i dirupi.
Aveva ella il potere di suscitare le tempeste, di vagare invisibile per i villaggi, di mutarsi nelle forme degli animali.
Come luna tra rocce un sorriso irradiava di lontananze ignote, chinando la sua fronte carca di purezza notturna. Di mitici pallori riviveva tutte le primavere spente, Regina adolescente, taciturna e spersa nell’oceano dei sogni.
Così a lui apparve nell’alone della luna, cinta dall’astro quasi da lei ricevesse la luce.
Una barca lunga e nera, ombra sulle acque, si avvicinò alla riva. Ed egli era ormai pronto al varco. Come dunque ebbe i piedi sul legno, la barca scivolò via per le profondità, quale una serpe d’acqua, fendendo le onde con un lieve sibilo.
E navigava lontano, nel tempo e nello spazio.



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