Al ritorno, mentre
percorreva il viale, tra i fiori e le piante ombrose, vide innanzi
alla porta una bambola abbandonata che lo fissava con occhi azzurri
vividi e vitrei, coronata di ricci d’oro e di nastri rossi, vestita
di raso verde. Come un idolo, custode del tempio, se ne stava
all’entrata. E la porta, di legno scuro, pareva celare segreti e un
mondo ignoto.
Ricordò che Misandra,
appena uscita dal collegio, era stata affidata al conte, come appunto
una bambola tolta di recente dalla vetrina d’una bottega di
giocattoli, e il marito l’aveva idoleggiata e coccolata proprio
come si fa d’un dono vagheggiato per lungo tempo, e gelosamente
custodita. E in effetti, quasi a confermare il simbolo, la stanza
prediletta da Misandra era piena di bambole, sui divani, negli armadi
e sovra mensole alle pareti. E la bambola dagli occhi immobili e
glaciali lo teneva alla soglia, lo impietriva come Medusa.
Come gli era impedita
ormai l’entrata alla villa, Mauro decise di recarsi alla spiaggia,
poi che il sole ancora tiepido si coricava mollemente sulle acque e
sopra le ombrate riviere.
Quando fu alla riva udì
una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro
voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e
sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da
un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il
volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in
quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti
capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo
in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano
l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa
criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante
attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue,
dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille
e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura
imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo
una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance
affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma
le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante,
quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si
ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo
un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai
suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili,
soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva
come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto
contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre
la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un
incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i
piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava,
maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva
un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le
sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la
notte.
Sopra marmi puri,
statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima,
dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al
lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice
giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un
pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa
di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era
sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una
femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle
e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano
destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando
l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i
sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava
intorno alle gambe.
In una seconda icona, in
primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e
leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente
olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli
occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra
labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso,
dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una
dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata,
schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea
risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo
sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile,
lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici
voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda,
quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle
mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si
mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e
la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo
mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “
Giuditta “.
In un’alcova intima,
tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo,
dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca
copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma,
scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva
orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra,
collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e
grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è
proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda
castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di
coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle
luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste,
che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in
doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette
all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal
pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di
larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la
malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso
uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea,
l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare
tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il
profumo e sognare.
Sotto i raggi filtrati fra
i rami fronzuti s’estendevano tappeti di fiori rossi, papaveri
forse o tulipani, tappeti di fiori purpurei o color ciclamino,
dovunque variamente sfumati alla luce sinuosa. Attraversava la
foresta dagli alti tronchi bruni, e, tra le sagome degli abeti
avvolti dalla nebbia, saliva alla vetta, verso i bianchi ghiacciai.
Le nebbie si diradavano e appariva l’immenso dorso irto d’abeti
lucenti, e udiva il canto dei ruscelli perdersi nell’infinito
sogno. Tra le gore limpida luceva l’acqua gorgogliante, e, in alto,
le nubi rade transitavano, passeggere curiose, e svanivano. Scendeva
al sentiero variamente maculato d’ombre e di luci, poi passava per
un boschetto di querce frondeggianti, e divagava di via in via, ora
dirigendosi verso la valle, ora risalendo, ora soffermandosi a mirare
il paesaggio, ora affrettando il passo. Nel silenzio si estendevano
le catene dei monti, sopra le nubi, nell’aria più pura d’un
cielo sopra il cielo. Erano veramente la dimora degli dei ? A che
altro era nato se non che ad innalzare l’anima a quel cielo puro e
azzurro, in una solitudine inviolabile ?
E intorno, sul bosco
schiarito dal pallore di migliaia di anemoni, soffiavano i venti
gelidi dell’inverno sopra i rami agitati dagli sbuffi, e la
corrente carpiva il sentore dei narcisi, che flettevano il capo quasi
tenere fanciulle etiche, minate dal freddo mortale. Procedeva allora
nella foresta, alla deriva come un’imbarcazione liberata
dall’ormeggio, fino a che, colpito dal colore giallo vivace dei
gelsomini, s’arrestò innanzi a un casolare di pietra, che n’era
adorno.
S’appoggiò al tronco
d’un giovane pino che fremeva al vento come dotato di vita animale,
mentre il sole illuminava la casupola, ricoperta di un mantello di
muschio. Nel cielo una solitaria nube nera s’elevava come una torre
in fronte al sole possente. La massa grigia s’attenuava e svaporava
in alto in un baratro di luce ignota. Quali mondi s’estendevano al
di là di quelle mura ? Forse i sogni negati alla giovinezza,
liberati dall’incantesimo dell’esistenza, s’avvicendavano in un
incessante prodigio. Sciolti i legami della misera vita, egli avrebbe
potuto laggiù esplicare l’infinito potere dell’animo e della
fantasia senza confini.
Sin dalla prima giovinezza
il suo spirito non camminava insieme alle anime degli uomini, né
guardava sopra la terra con umani occhi, la sete della loro ambizione
non era la sua, né lo era lo scopo della loro esistenza. Le sue
gioie, i suoi dolori lo rendevano uno straniero, egli non aveva
simpatia per la carne umana, la sua gioia vera era nella natura
selvaggia, nel respiro dell’aria aspra delle vette innevate, dove
neppure gli uccelli hanno il nido e donde soltanto scaturiscono dalla
loro culla i getti dorati delle sorgenti, precipitandosi in luminose
cascate nell’aria frizzante del mattino.
Era dentro di lui una
forza misteriosa che lo spingeva a procedere nell’oscurità, nel
deserto dell’esistenza, senza una ragione, senza un qualsiasi fine,
senza alcuna gioia.
Sul suo volto si
scorgevano ormai i segni del male. I suoi occhi erano colmi di una
febbre velata a tratti da ombre di quiete che pareva spegnerli per
poi accenderli di una acuta ansia, di un sorriso talvolta, freddo
come un ghigno.
Egli era un essere
solitario, isolato, oscuro, immerso in un sogno d’odio, d’orgoglio
inappagato, in un esilio disumano.
Le teorie delle regine
maledette lo circuivano dietro le lusinghe del serpente, chimere
mortali, terribili, delle acque insondabili, degli spazi inviolati,
delle ombre e dei sogni, che coprono con le loro volute insidiose il
fondo della nostra vita, del Mistero.
E il Mistero si rivelava
dopo i primi smarrimenti. Egli era consapevole ormai che, oltre le
immagini ingannevoli che parevano deviarlo per la via della vita, una
irresistibile forza agiva in lui come un destino.
E quella forza era lui
stesso, nella violenta volontà di essere se stesso, nella brama di
vivere la sua vita, specchio di se stesso.
Sentiva la propria
solitudine e l’esclusione da un mondo cui non apparteneva.
Si volse a contemplare da
lontano la piana delle correnti cerulee. La sua pupilla si perdette
in orizzonti sconosciuti, per i quali aveva osato il viaggio nella
stagione della sua primavera, isole immense trionfanti di intrichi
selvosi e di labirinti turriti e d’arditi archi su vertiginosi
baratri.
Ove aveva corso coi
centauri sulla riva del mare mugghiante e al vento acre, ove aveva
assistito alla furia dell’eroe contro lo Scamandro, o al volo dei
corvi di Odin, gracchianti tra le nubi porfiree nei tramonti boreali,
o al tuono e agl’inni tenebrosi delle vergini guerriere, ascese nel
turbine della tempesta, laggiù voleva tornare.
Un alone violaceo lo
cinse, poi che il sole all’orizzonte declinava dietro un velo di
amaranto. I gabbiani volteggiavano fra i vapori nell’indaco della
veste ombrosa.
Sopra la collina, che
invadeva le onde come un’immensa testuggine, era un fiore bianco.
Presto un agile centauro
dalla chioma fluida che si smarriva nel vello bruno del petto e gli
inondava le spalle, una virente criniera lungo il dorso arcuato,
balzò sino alla cima, rotando la coda come un flagello. Sorreggeva
col braccio destro un corpo pallido, esangue, sul quale s’allungava
un manto verde lucente, quali sono le sponde delle fonti nei campi
solitari, ove cresce l’agnocasto e il lauro, e sull’orlo del
manto una lista scarlatta di crisantemi declinava per le gambe
eburnee. L’anca era stretta dalla mano nervosa del centauro e il
torace poggiava sovra l’omero destro del vasto animale, il capo
adagiato alla gota sinistra aveva la bocca socchiusa, livide le
labbra. Una corona d’alloro era sulla fluente chioma castana,
striata di venature dorate. Pareva trasumanato nell’effusione
dell’ultimo canto, celebrato il sogno estremo. Un sangue nero
colava sulla carne di neve, sotto le ciglia dormivano i suoi occhi.
Il centauro lo conduceva
alla sede degli dei beati ove si perpetua la giovinezza, per poi
nascondersi nuovamente nell’oscurità delle foreste.
Nelle foreste, dove
rombano i fiumi e imperversano i venti, esso galoppa furente di forza
e la sua voce s’unisce a quella di tutti gli esseri, divini e
ferini. La sua voce è una eco della possente voce dell’Oceano dei
secoli antichi, la sua forza serve il dominio del grande Dioniso.
Ormai il sangue del cielo
s’effondeva intorno al disco del sole, e le montagne si coloravano
di cupo azzurro e confondevano le loro pendici col mare.
Lungi s’alluminavano le
minuscole città, ignare.
E i timori degli uomini
morivano nelle loro tane, inesperti del terrore sconfinato che urla
sovra le rupi dei precipizi, che sibila sulle cime, che schianta gli
anfratti dei promontori. Lo conoscono le aquile, che di tanto
superano gli uomini, e le volpi che li ingannano, i camosci audaci e
le vigili marmotte pronte alla fuga.
E così moriva nel vasto
tramonto il poeta, il suo sangue s’univa al sangue del crepuscolo
che si sfibrava in striature, in velami tinti di ciclamino, sottesi
d’un’orditura d’oro.
Ma lontano, nella città,
la paura si coricava nella notte degli uomini.