Come si destò dal lungo
sogno, gli parve che dovesse essere ormai notte. Ma il sole era
ancora alto nel cielo.
Si trovava sulla spiaggia,
oppresso dalla calura.
Si mosse e s’avviò per
tornare alla villa e, mentre era in cammino, incontrò nuovamente la
fanciulla di prima, questa volta di fronte a lui, e i suoi capelli
bruni mossi dalla brezza le ricadevano come arabeschi sulle spalle
morbide e bianche.
Nei suoi occhi vide il
riflesso dei laghi alpini dove si specchia il sole, e un fremito di
esultanza lo pervase come il vento un abete sui monti.
E la disperazione del
desiderio lo catturò crudelmente senza scampo. Era la tempesta che
scendeva con fragore dalle vette sino alla valle, giù turbinando per
le pietraie, levando nugoli di terra arida, con un rombo per le gole
fra le rocce echeggianti. Un tuono, un urlo terribile prorompeva fra
le ardenti giogaie frustate dai fulmini. Sentiva in sé allora il
tormento dei desideri e della volontà, la tempesta senza fine delle
passioni, la tortura della vita.
Gli parve che anch’ella
lo guardasse. S’infiammarono le guance e il pallore subitaneo mise
in fuga il rossore. Il viso le s’irrigidì, concitato dall’ira. “
Dove mai la sanguinaria mènade è precipitata dall’amore spietato
? Qui e là dirige il passo, come una tigre orba dei nati con corsa
furente percorre la foresta intorno al Gange. Non sa frenare l’ira,
non sa por fine agli amori; ora ira ed amore han fatto causa comune :
quale sarà l’effetto ? “
Proseguì dunque con
l’amarezza nel cuore attraverso le alte palme ondeggianti al soffio
dello scirocco.
Lunghi cespugli di
rosmarino profumavano l’aria, alberelli di iucca innalzavano ancora
tra le lunghe foglie spesse, di un verde lucido, i resti della loro
bianca fioritura.
Il pomeriggio avanzava e
si caricava dei cupi presagi della sera, svelati da nere nubi che
facevano capolino tra i monti. Un senso di oppressione toglieva il
respiro e il ricordo di dolci visioni. Ma come fu al cancello della
villa, allora si dileguò per lui ogni minaccia di tenebre e un nuovo
sole illuminò il suo volto, mentre il sole del giorno volgeva ormai
al tramonto e copriva di un aureo velo l’edifizio e il giardino,
trasfigurandoli.
Così, regina del mondo
dei sogni, Misandra lo attendeva sulla soglia del suo palagio d’oro.
Come una principessa delle
fiabe, vestita d’un lungo manto dei colori della primavera, ella lo
attendeva sul più alto gradino dell’alta scalea.
Il vento soffiava forte
sul mare e le nubi roteavano, mentre Mauro saliva timoroso e lento la
gradinata, ma nel suo cuore s’agitava il turbine. E invero era
immerso ormai nella corrente inestinguibile, e il suo volto si
protendeva, per non più volgersi, verso colei che attendeva.
Ed ella irraggiava tutta
la potenza dell’amore, più forte del tuono e del lampo. Potente
regina vittoriosa, ella dominava le tempeste.
Ascendeva in vortici la
musica onnipossente della natura ed empiva di sé inebriando l’ampia
volta del cielo.
E gorghi e vertici e
flutti dorati si tendevano con la forza d’un arco temibile a
scoccare lo strale del loro immenso respiro. Viveva ogni creatura in
quell’anelito, a quell’abbraccio gaudioso e ineffabile correva a
dissolversi.
Così al tramonto d’oro
lo accolse Misandra, e per lunghi corridoi lo condusse infine a una
grande sala. I cortinaggi erano aperti e la luce rossastra illuminava
le pareti. Su una di esse risaltava un grande ritratto d’epoca
secentesca, il cui soggetto era un cavaliere ornato di corazza nera e
lucente, avvolto in un ampio mantello purpureo. Alto, bruno, teneva
la mano sinistra sul fianco e con la destra reggeva un bastone
d’avorio. La spada risaltante di riflessi dorati gli stava alla
sinistra, l’elsa finemente lavorata lasciava scorgere un mirabile
intrico di arabeschi. Lunghi capelli neri gli cadevano sulle spalle,
smossi dall’impeto della battaglia, la fronte alta e pallida
rifletteva un chiarore perlaceo. Sotto le sopracciglia sottili e
nere, occhi penetranti e minacciosi insidiavano qualunque sguardo con
sfida beffarda e crudele, né parevano potersi eludere, ma seguivano
chiunque fosse entrato nella sala. La loro tinta era indefinibile,
d’un castano variabile a seconda della luce, ora chiaro, ora scuro,
l’iride infatti mutava secondo i raggi, poi che il pittore l’aveva
dipinta con capricciose sfumature. Le fattezze del volto erano nobili
e ferme, le labbra rosse.
Misandra si fermò innanzi
al quadro, né parve più accorgersi del suo ospite. Mauro perciò
ebbe fretta d’allontanarsi e si diresse verso la porta, ma, colto
da un moto di curiosità irresistibile, si fermò sulla soglia e
stette a guardare.
Il dipinto non si trovava
a grande altezza dal suolo, ma al livello più o meno di chi lo
ammirasse, Misandra gli si avvicinò affascinata e senza alcuna
esitazione, quasi fosse ormai un’abitudine, lo baciò sulla bocca.
Quindi si ritrasse inebriata e come avesse perduto il senso del tempo
e del luogo in cui era.
Perplesso, Mauro si ritirò
rapidamente e raggiunse la propria stanza.
Nella camera era posto un
grande armadio a specchio. Non poté fare a meno di guardare e vide
la sua immagine riflessa, ma stentò a riconoscersi.
Chi era mai quell’uomo
dagli occhi fissi sopra di lui, implacabili e dotati d’una
straordinaria energia ? Pareva un demone appena uscito da una nube
nera, circondato da un’aura di possente mistero. Lo fissava
sogghignando, sarcastico e crudele, con le braccia incrociate, che
sembravano dotate d’una forza immane, pronte in un balzo di belva a
dilaniare.
Era proprio lui
quell’individuo così terribile e minaccioso ? Ne ebbe paura. Una
paura folle, senza rimedio. Quella era la vita interiore, profonda,
oscura, invincibile, che gli toglieva ogni speranza, ogni illusione
di equilibrio e di pace. Non voleva, non desiderava essere così.
Aveva orrore di sé medesimo, della vita caotica, tumultuosa, che
s’agitava entro di lui come magma pronto a esplodere, a scaturire,
a distruggere. Aveva una folle paura di quella vita, ma quella vita
era vera ed innegabile. Aveva paura, temeva le proprie azioni, temeva
che qualcosa gli sfuggisse, lo tradisse, lo rivelasse a se stesso e
agli altri. Temeva il buio della ragione. Avrebbe voluto che ogni suo
atto fosse sotto il suo controllo, che ogni minimo atto fosse frutto
di riflessione, di ponderazione, sino a potersi vedere, valutare,
dirigere come un abile arbitro dirime e giudica o un esperto regista
governa gli attori, così avrebbe desiderato osservarsi sulla scena
del mondo. Ma era follia, follia per assurdo, volersi opporre alla
follia stessa. Non s’accorgeva che la pazzia è il frutto di un
eccesso di ragione. Ma la vita, la vita ! Questa terribile malattia !
Come avrebbe potuto
affrontarla, come avrebbe potuto sostenere il peso ognora crescente
dei giorni, sempre uguali, sempre diversi, e ognuno col suo costante
bagaglio d’affanni, di tormenti, di delusioni ? Non aveva più
forza per vivere, eppure era trascinato da un impeto oscuro, ed ella
era là che lo attendeva, lo guardava e talvolta gli sorrideva.
L’enigma della sua bellezza lo sconvolgeva, ah, era sempre più
bella e sempre più lontana !
Ricordava brani di sogno,
immagini volitanti nella mente come brandelli di fogli stracciati .
Era quella che gli diceva : “ Le tue dita sembrano aghi. “ Ella
gli parlava in un’ombra, entro una vasta cava ove risonava l’eco
del mare.
Allora si volse e vide una
navata immensa e in alto una cupola tra le nebbie dell’incenso e
nel centro una gigantesca vasca marmorea ove nuotavano grandi
tartarughe marine. E la donna, dagli occhi furtivi quale vigile
gazzella, a lui diceva parole sommesse come onde di lago silenziose :
“ Seguimi, ecco la via del serpente. “
Così disse a lui la donna
e lo sedusse per la basilica immensa dove echeggiavano i canti delle
acque crepuscolari. Color d’opale, uno specchio sorgeva a
riflettere, occhio imperscrutabile, le alterne ombre e le onde vive.
Le ombre di mondi lontani,
le ombre in lontani tramonti ove si riflettevano gli echi di cori
oltremarini, le voci dei sogni d’infanzia e dei sogni mai sognati,
un fluttuare impetuoso, onde di voci impetuose in vortici di luce si
rifrangevano sulle coste rocciose d’isole incantate dove nell’ombra
sorgevano altissimi castelli neri in fronte all’immenso tramonto.
Un susurro si riversava sulle rocce d’acque lucenti e pure come
voci di bimbi, i sogni mai sognati prendevano vita in un calice colmo
d’incanto. Un inno s’alzava verso il cielo, un inno di luce
eterna. E quel canto planava quale alato solitario sulla piana del
mare, nell’alito dell’oceano s’allontanava tranquillo verso
l’orizzonte, un’anima che vola verso la sua meta, verso le
promesse che attendono tutte le nostre speranze.
Un’ombra si dileguava
all’orizzonte, nell’abbraccio della notte, nel sogno della morte.
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