Lo chiamavano gli alberi a
sé, con voce nuova. Lo chiamavano a sé i vecchi giganti e
suggerivano parole misteriose, disperse nel vento.
La voce della Natura
onnipossente lo chiamava dal grembo della terra. La Madre gli
ricordava che era suo, come tutte le cose e gli esseri del mondo.
Ecco, un brivido lo
pervase ed egli vide sul mare il riverbero trionfante e fra il corteo
di lumi eterei scorgeva assurgere tra le onde spumose gli dei, che
ancora volgevano lo sguardo alla terra.
Tutte le vite si
abbracciavano nel mare dell’universo. Tutte si specchiavano nel
chiaro occhio del mondo, ed erano l’iride del chiaro occhio del
mondo. Gli alberi, le rocce, i cespugli si stagliavano nitidi. Senza
una nube il cielo abbagliava d’azzurro. Nell’immenso silenzio si
celebrava il più grande trionfo.
Oh, procedere verso il
sole, verso la gioia, verso la vita !
Un cantico luminoso
sorgeva dai fiori di campo, dalle fronde ondose dei pini, dalle rocce
solitarie, e s’innalzava sulle vallate, ad un cammino lontano, a
lontani orizzonti.
Ed egli avanzò fra i
ranuncoli bianchi, su per la collina. I rami dei pini ondeggiavano
alla brezza con un moto lento e maestoso. Egli avanzava, inesorabile
come il lento moto del tempo.
Nel folto dei lecci,
nell’umida ombra, in mezzo ai tronchi cupi e ai rami nodosi avvolti
di rampicanti, s’inoltrava e filtrava per le fronde in alto il
pallore del giorno, coricato tra un vapore leggero. Era bello
camminare così, immerso nel fogliame della foresta che respirava
frusciante gli aliti tiepidi del cielo.
Placida si coricava la
luce sul dorso selvoso delle colline, rilevando le zone d’ombra più
umide ove crescevano i faggi ondeggianti. Si riverberava sulle rocce
qua e là emerse e sparse quali specchi infranti. Si dileguava come
un eco, lontano, verso lunghi ed esili fronti di nebbie.
E lontano sul mare le
diafane colonne del sole occultato dal nembo silenti posavano
scanalate ed olimpiche. Il tempio di Zeus s’ergeva maestoso e
solenne sopra le infinite distese glauche, in attesa di nuove offerte
e di nuove preghiere.
Ma non era sufficiente la
solitudine intorno, dovevano scomparire i tumulti e le turbe interne,
doveva sopravvenire la pace dell’anima silenziosa, per acuire e
purificare gli occhi alla luce. E doveva sorgere dall’oceano il
Sole maestoso, e l’igneo cocchio trainato dai cavalli ardenti
percorrere vibrante la volta eterea e in alto irradiare, il
vivificante Elios, dal suo trono possente.
Così era infatti ogni
giorno, poi che ogni giorno era concesso.
E ricordava le magiche
parole : “ Tu che dal limo emergesti, che su nave navighi, che
nelle singole ore forma muti, e nei singoli di Zodiaco segni commuti.
“
Sull’infinito dorso del
mare cavalcavano le onde spumose, quali equini focosi si perdevano
sino all’orizzonte, ove la luce si scomponeva in mille fasci
radiosi, e là parve riflettersi, in un solo istante, l’essenza
della sua vita, la speranza.
La graziosa figura di una
bimbetta riposava sopra il lume dell’orizzonte, sopra il confine
del mare, né le si avvicinava l’ombra del timore né senso alcuno
di minaccia. E la Vita la benediceva nell’abbraccio della sua
aurora, nella certezza dei giorni futuri.
Ed egli comprendeva la
vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri
e delle speranze che albergano nel cuore e l’inutile affanno nel
ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a
svanire nel nulla.
Non era certamente quello
che finora era stato. Era stato solo una maschera, uno sciocco
manichino, un burattino manovrato dal suo carattere avverso. Ma una
vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva,
lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, un Io
più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastità del
mondo.
Ascendeva all’assoluto
silenzio del bosco, delle rupi sopra le quali planavano e
volteggiavano i corvi. Immensa era la vastità del silenzio, non
altri uomini s’aggiravano su per le pendici, ed egli rapido e
ostinato ascendeva per il corpo illimitato della montagna con il suo
piccolo corpo, violatore dell’immobilità, spettatore di uno
spettacolo gelosamente custodito.
Intorno i rami, inumiditi
dalla rugiada, gioivano in guizzi e scintillii. Colmo era il cuore di
quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai
provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Ora il dorso della
montagna nascondeva il disco del sole, tornato a rifulgere, ma i
dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata
di chiarità irresistibile. Una tempesta di raggi travolgeva gli alti
fusti e le fronde, forzando e abbattendo i muri delle ombre. Una
musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso e
rigenerato.
E come venne alla fine del
bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso
l’avvolse nello splendore e le giogaie e le rupi e i picchi audaci
ardevano inondati di luce. E vide il baratro al di sotto e l’altezza
dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene
montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e
più sfumate verso l’orizzonte.
Scorse alcuni rapaci che
aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di
nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo
sguardo nella luce dell’infinito azzurro. Gli sembrò che il corpo
si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo e le sue piume
scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e
le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le
nubi, verso l’occhio del Titano.
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