Un cigno scivolava sulle
acque plumbee. Nell’oscurità risaltava la sagoma bianca, alla luce
della luna. Così scivolava la sua immaginazione per le remote
contrade del desiderio. Sognava un mondo di sogni, come sempre.
Coricato sul letto, era
avvolto da un alone misterioso, un velo, una nebbia bianca e
splendente. Era già pronto per il lungo viaggio ?
Come al solito non si
rivelava pienamente a se stesso. Rimaneva incompiuto e attendeva
sempre che un evento esterno, una forza estranea gli rivelasse un
aspetto del suo spirito che fino ad allora egli aveva ignorato. Era
mentalmente pigro, come un ciottolo giacente sul fondo del ruscello
che può smuovere soltanto il maggiore impeto della corrente, così
era, un essere inerte ma sempre mutevole.
Occasionali compagnie,
amici d’un giorno o poco più, negli anni giovanili avevano un poco
smosso quel sasso. Ora, avendo appreso chi era, anche in parte,
considerava se stesso con stupore. Non era certamente come gli altri,
ma apparteneva, per così dire, ad una razza diversa.
La vita lo chiamava,
insistentemente, prepotentemente.
Si sentiva ordinato a un
nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del
suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero
pensato, non potevano che avere un’idea vaga e terribile.
Sulla spiaggia correva il
suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli
anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, come un
corsiero anelava ad orizzonti di promesse, a sogni che si perdevano
in ogni lontano tramonto.
Avanzava entro foreste
millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie
montuose. Quale corsiero, sentiva pulsare più forte il cuore.
Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e
roccioso di quelle alte montagne, dove s’udiva soltanto il vasto
respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano
dall’inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della
corsa, si arrestò presso il tronco d’un alto larice. E all’ombra
dell’essere silvano riposando, s’addormentò e di nuovo continuò
a correre tra nuovi sogni. E vide una figura di donna che fuggiva, e
aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida.
Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d’una valle
notturna cinta di rupi. I capelli brillavano al lume della luna, che
pareva tingersi di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra
grandiosi ruderi d’un antico tempio, le cui mura ed arcate erano
rivestite d’un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere
che tremolavano alla brezza. Alte, massicce, imponenti le rovine
ricevevano sull’ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano l’ombra
cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi, volgendosi
al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi, che
roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori. Mentre
avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò,
gorgogliando insieme ai rospi della vicina palude una sorta d’inno
incomprensibile che s’alzava al cielo come il borbottio di mille
pignatte ribollenti.
Come entrò nella navata,
echeggiò il murmure marino. Le parve che ogni altare brulicasse di
devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori
dell’incenso, vagava quale nebula per la cavità innervata di
colonne e d’archi a ogiva, che scandivano l’ampio spazio
prolungantesi verso l’abside. Su ogni altare ogni dolce passione si
dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di
remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e
soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s’intravvedeva
il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea
sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole.
Allora s’avvertiva un gemito sordo, assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la
balaustra di porfido, scintillava d’oro e di gemme un trono. Una
donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa
chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di
smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le
posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini
le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due
lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra
la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente
improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità,
ma di serena e sovrana indifferenza. Gli occhi grigi erano profondi e
freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un
orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola
dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto
segreto dell’amore.
Il desiderio lo colse
improvviso, inevitabile, irreprimibile. Sentiva il proprio corpo
avvolto da una spirale di voluttà di cui era totalmente prigioniero.
Era impossibile sottrarsi. L’idolo vagava per la stanza e per i
meandri della sua mente. Quell’immagine era ormai dappertutto.
Destatosi, anelante,
s’affacciò alla finestra, l’aperse e, nella notte, guardò verso
l’altra finestra, ancora illuminata, di Misandra.
La camera era a lato del
chiostro, di fronte proprio alla sua.
Non vide nulla, neppure
un’ombra. Allora immaginò di vederla, e gliela dipinse vivamente
la lussuria, mentre adagiata sul letto lo invitava tra le braccia.
Ed egli si saziava del suo
corpo, ammaliato, stordito, ebbro. I suoi occhi non vedevano se non
gli occhi di lei che lo fissavano, e le membra di lei palpitanti,
bianche e rosee, e i lunghi capelli sciolti sul dorso e nell’ombra
intorno.
Gli occhi profondi e verdi
inghiottivano la sua coscienza come abissi marini.
Le spire del piacere lo
conducevano, lo traevano giù. Egli ansimando effondeva le proprie
forze con uno spasimo.
Ed ella lo accoglieva. Le
braccia lo cingevano strettamente, si avvinghiava a lui, lo
tratteneva, lo vincolava, lo possedeva.
Sentendosi soffocare,
Mauro dischiuse le palpebre che l’immaginazione aveva catturato, e
si meravigliò del silenzio e del vuoto. Non un alito di vento nella
notte, non rumori di servi, non lamenti d’animali, lontano, nella
boscaglia.
Ma, nella boscaglia, la
luce della luna giocava coi rami torti e silenti, lunghe nodose
braccia che si tendevano nell’oscuro ansimo dell’ora. Corpi nella
notte s’avvinghiavano, si torcevano, si fondevano nell’abbraccio
e apparivano in barlumi improvvisi, madidi e lucenti e misteriosi
come palpiti di fiamma nel cuore della tenebra.
Nessun commento:
Posta un commento