Una fanciulla bionda
correva allegra nel giardino invaso dai raggi morbidi dell’aurora.
Era nello splendore della
pubertà, quando il corpo femminile raggiunge la perfezione della
grazia e l’armonia insuperabile della forma.
La guardò a lungo
trascorrere tra gli alberi, una ninfa nata proprio allora dal tronco
di qualche antica quercia, le braccia solo adornate di ghirlande
odorose e i capelli fluenti, tenue veste sulle membra splendenti.
Si fermò, stupito. Dunque
nulla era cambiato dai tempi del suo primo turbamento d’amore ? Era
ancora e sempre come la prima volta ? Ed era giusto quel sentimento
o, meglio, era giusta quell’attrazione così irresistibile ? Il
dubbio lo assillava. No. Sentiva dentro di sé un rimorso e il
terrore di una caduta senza ritorno. Sentiva la tortura dei sensi.
Nel contempo avvertiva il loro dominio tirannico e l’incapacità di
sottrarsi ad esso. Era consapevole dell’istinto e provava perciò
un’intima avversione. E, se pensava a se stesso, vedeva un’immagine
vana, un puro riflesso, dietro il quale una superficie opaca impediva
la vista.
Cos’era mai il suo io ?
Neppure lui lo sapeva. Non sapeva nulla. Sentiva la realtà difforme
dall’apparenza della persona che gli stava addosso quasi una
maschera. Sentiva in sé un vagare, un disordinato incrociarsi e
scontrarsi di cose frante. La sua vita regolare era la struttura
sulla quale il suo cervello tentava d’impiantare l’edificio
vacillante dell’esistenza. Ma in ogni istante quello, come una
pianta senza radici, crollava e bisognava ricostruirlo, in ogni
istante la sua debolezza lo feriva e lo umiliava. Talvolta non poteva
sostenere lo sguardo altrui, ma era smarrito come un bambino. E certo
aveva paura. Aveva paura della morte, ma ancor più della vita.
Ma la vita inesplicabile,
nonostante tutte le sue paure, si rinnovava sempre, e non solo ogni
anno. Il sogno dell’adolescenza forse era morto per lui, ma non per
altri. In verità un’eterna ghirlanda di fiori cingeva sempre le
tempie della bionda figlia di Cerere, ed ella risorgeva per le nuove
generazioni a colmare di speranze il calice inebriante della
giovinezza.
Sentiva un suono lontano,
un eco di canti e ritmi di danze. Cos’era mai ? Nella valle, verso
la montagna, pareva si celebrassero ora antichi riti, credenze di
contadini, ai quali partecipavano, così gli era stato detto, i
giovani del luogo. Pareva che al declino dell’estate si volesse
rimediare con la magia degli scongiuri e farla durare ben oltre i
suoi naturali confini.
Eterna giovinezza, eterna
vita ! Tu sei la più naturale delle aspirazioni umane.
“ Quod enim genus figura
est, ego non quod obierim ? “
Egli pensava alla
incessante metamorfosi delle parvenze, e gli sembrava che in ciò
potesse consistere l’eterno ritorno di tutte le cose.
Pensava alla vita che si
rinnova costantemente secondo leggi eterne ed immutabili, e avvertiva
dentro di sé sempre sorgere l’indistruttibile desiderio, il fato
della passione, che lo spronava verso mete ignote, verso lidi
irraggiungibili, sempre anelante, sempre deluso. Il desiderio
combatteva contro tutte le parvenze ostili, la lotta impari lo traeva
alla disperazione. Egli non sapeva più dove volgere il capo, in ogni
campo di battaglia aleggiava l’aria della disfatta. Sentiva sopra
di sé l’ombra di Aiace e la minaccia dell’insania.
Tutto era finito nel
nulla. Ogni suo tentativo era naufragato contro gli scogli
dell’altrui ostilità. L’interesse meschino, il pregiudizio
sociale, l’egoismo più gretto gli avevano lentamente sottratto
ogni speranza. Una corrente limacciosa trascinava via nei suoi gorghi
il desiderio di vivere. Qualunque strada gli era preclusa, dovunque
volti duri e ostili, falsi e sornioni risaltavano come maschere
tragiche e funeree.
Era inutile, per lui non
c’era nulla. Delle belle promesse del mondo non gli sarebbero
spettate neppure le briciole.
L’accidia penosa lo
trasse con sé nella sua morsa. Il sentimento disperato del
fallimento prese a roderlo, impietoso. Ed egli piombò in una
stanchezza senza rimedio.
Il sonno profondo lo prese
immergendolo nella sua oscura palude, dove la sua anima scivolava
sulle acque plumbee come un cigno, sotto la luna pallida. Come un
cigno illuminato dalla luna la sua anima vagava verso rive remote,
celate da una nera selva ignota.
Quell’oscuro groviglio
di ramose piante e di rampicanti insidiosi nascondeva la trappola
fatale della sua malinconia, l’abisso cupo e maligno, il torpore
acido e putrescente che abbrancandolo e avvincendolo completamente lo
trascinava nel gorgo odioso della follia.
Era l’antica maledizione
che colpisce i mal nati tra gli uomini. “ I melanconici sono
preda delle loro immaginazioni e commettono ogni sorta di pazzie “
aveva più o meno detto, e così ricordava, Aristotele e poi Galeno,
e questo era il suo male, inveterato, ributtante.
Un dormiveglia affannoso
lo trascinò dunque nei suoi vortici spumosi, e larve luminose o
maligne gli si alternarono nella mente, in un gioco privo di senso.
Un canto si librava sotto
le oscure volte.
Di chi mai la voce così
melodiosamente si liberava nello spazio stellato ? Aprì la finestra.
Ascendeva maestosamente nell’atmosfera tinta di un azzurro cupo e
carica di umidore notturno e volteggiava per una via ignota. Strane
fantasie sorgevano in lui.
Era con lei sulla riva del
mare.
La brezza le animava i
capelli che respiravano i vividi raggi. Gli occhi erano lo specchio
profondo della distesa delle acque celesti e luminose nel mattino. In
essi lo sguardo si smarriva come a cercarne l’orizzonte.
Ella l’osservava
misteriosamente, senza parola.
Ma egli la ricambiò con
un’occhiata d’odio troppo a lungo represso. In quali contrade
voleva condurlo, ch’egli non avesse già percorso ? O quali
conoscenze poteva comunicare questo essere affascinante, ma pur
sempre limitato dai vincoli del corpo, bello d’una bellezza che
aveva già ammirato nell’animo e nella mente e dotato d’attrattive
assai inferiori a quelle che avevano ammaliato i suoi sogni ?
Provò il desiderio
d’ingannarla, di violarla, di soffocarla col rancore della
delusione, ma non poté che continuare a guardarla, costernato.
Ella era davanti a lui,
impassibile, indifferente. Se fosse stata una statua o un blocco di
pietra non avrebbe fatto diverso effetto.
Gli occhi, profondi e
immutabili, l’osservavano senza emozione. Senza comprensione alcuna
non mirava ella che un’immagine riflessa nelle sue pupille.
Una fusione delicata,
diafana, d’ombra viola ed azzurra il vespero le pingeva
sull’epidermide delle palpebre, negli occhi s’illuminava l’iride
lionata degli angeli notturni.
Al chiarore lunare, nella
landa solitaria estesa come un mare, si disegnava la sagoma nera
degli alberi in un alone giallastro, evanescente. Si protendevano i
rami cinerei nell’ansito greve, nel silenzio che li mordeva gelido.
Una candida figura era
ella, indifesa e smarrita nel labirinto, dove di ululati si dilania
la solitudine.
Ah, i polmoni bruciano, le
tempie battono, la notte precipita negli occhi come un sole !
La luna purpurea
ritagliava ombre entro la sua lucentezza per i canneti agitati,
cadendo nell’acqua come un serpente dalle scaglie vitree.
Ella vide la sua immagine
riflessa nello specchio mormorante.
Non era ella un mistero ?
La sua immagine si confondeva con quella di lui, che le stava
innanzi, estatico. Quasi la luce lunare l’avvolgesse tutta, la
penetrasse, appariva trasparente, come un fantasma.
Nel turbine dei ricordi si
confondeva ormai ogni visione. S’increspava al vento del mattino la
superficie delle acque. Le anatre svolazzavano intorno alla foce del
fiume.
Ella svaniva ai primi
raggi dell’alba, e ogni speranza si dileguava per sempre.
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