sabato 25 gennaio 2014

Istakar,11





Quando il sole alla notte sovrana
il sangue mesce ai nati d'Aurora,
e virginea luna e il mare arcana
danza tra i lumi nella terra incuora,

alti alberi sogno, membra umbrate,
umide e algose all'alito, attorte,
greve al vento, gracchiano lunghe alate
marine ombre, e geme l'onda forte.

Fremito d'ali, e viene il cocchio nero,
della notturna dea, al rombo e al flutto
dei coribanti, e s'apre il suolo al fero

tuono dei timpani e dei gorghi instrutto
fuoco arroca e spira, il mare duole,
selve echeggiano agl'inni e nasce il sole !



 


Istakar, 10




Occhio del serpente, cupi e immiti
sibili d'arcani dei freddi venti,
oh, nubi d'oro, attesa di fulgenti
alabastrine colonne agli inviti

di giochi e canti sotto le volte agili,
gigli irrompenti ai raggi fra i veli
sèrici, iridati specchi fragili
fra mille risa, sapidi cieli.

Nebuloso sonno, manto di maghi,
lubrico vagola ai sulfurei draghi
per arabeschi purpurei; invoca

voce il volo e le plaghe varca roca
del negromante e grida sovra il sangue
salso e inebria all'urlo il criseo angue.



domenica 19 gennaio 2014

Istakar, 9



 

Quando la dolce Primavera fiori
coglie nei prati per la bella chioma,
colgono bionde l'api il biondo aroma
figlio del sole e danzano gli amori.

E tu apri la porta e ai campi lieti
fra le viventi fronde corri e il vento,
ombra e sussurri tra le fresche reti;
umide bacche d'insidioso accento.

Occhi palustri, avidi specchi d'acque,
antiche magie sotto la luna,
rossa, all'ululato del corno roco.

O Cibele, te antro d'ombre invoco,
cui coro di corimbi bronzeo nacque,
bella fiera della terra bruna.



Istakar, 8

 

 
Furioso al fischio della frusta corri
corsiero mio, corri e nitrisci igneo,
mordi il vento marino. A rupi incorri,
ad abissi viscosi e limo tigneo.

Giù, dalla roccia va ed inventra
alla bocca in crepolii sulfurei
là, voragine di torce e murmurei
cori di morti. Là, a Istakar entra !

Oh, e dove sono delle mandore
l'aulite voci, e dove le fronde
delle cerule canne al caldo sole ?

Tra le rovine muscose il candore
e il gioco delle glauche chiome, sponde
sazie di veli all'avide parole.

sabato 18 gennaio 2014

Istakar 7





Riva arida e sola, ove il rombo glauco
d'oceano inghiotte aspri singulti urlando,
lacerandosi sugli scogli rauco,
con pianto di rupi sibilando;

in grotte nere giaccio; tra le torce
stridono nòttole, mugola il mare,
l'immane mostro che verdi occhi attorce,
lince, ispido spettro, spira ad unghiare.

Oh, e di zoccoli ed inni di trombe
gorgonea tempesta, e corsiero alle onde,
nero nitrito che tuffa fremente,

algido di violacei flutti. Tombe
fra ombre di germogli e fiorite fronde
nasconde al quieto lago cetra assente.



Istakar, 6











Ora fiorisce amante all'arpa e canta
fiotto di fonte, ròrido narciso,
soave all'ombra, dei prati al sorriso,
sovra il violaceo flutto blando incanta.

E libellula giuncata barca
l'onda lambisce, e sèriche svela
le fatate ali, alia mentre varca
per melodiose sponde la vela.

E nelle grotte riposa il pastore
Pan, che quando alto il meriggio regna
a rocce inarca tra i cespi all'odore

della selvaggia chioma, e al balzare
tra i pini della verde vampa impregna
l'avide nari e corre all'ampio mare.



Istakar 5






 
Odio il tempo tiranno ed il timore,
e dei borghesi l'invidia folle
di sogni alborei al fiammeo colle
alla finestra che mi apriva Amore.

Danza di fauni alle ninfe sposa,
dalla dimora dell'ombre lontana;
fluttuosa sinfonia, armonia ramosa,
rapita ai campi fuga meridiana.

Avide nari al piacere dell'aria
nei prati gioiosi e lieve canto
rubeo tra i rami all'acqua luminosa,

fra l'arse foglie in fruscio varia.
Iride fulva di fauno amorosa
amo e tenui note e umbrato incanto.


venerdì 17 gennaio 2014

Istakar, 4





 
Tu all'ombra d'un platano sonora
placa il mio cuore, o cicala,
gioiosa canta con iridata ala
tra sterpi d'oro nella calda ora.

Canta e placa l'angoscia, che divora
la mia povera vita, al tuo canto
in melodie di biondo incanto
al quieto manto marino ancora.

Che all'ombra in sogno soave posi
tra fughe di sorrisi e fauni e ninfe
ed echi di flauti melodiosi.

Che all'ombra di alberi nodosi
della selva al palpito di linfe,
d'albe sogni fra suoni deliziosi.


Istakar, 3




 Musiche profumate, aurato ardore,
solenne d'oblio, chiome vaporose,
effluvii di mistico sudore,
tra le lampade fra le carnee rose

oltre il candido muro, e nell'oro
trèmulo di smeraldo, scintillante
opaline malie; ansia amante,
turbinoso susurro, d'ali in coro

voli iridati, perle rugiadose,
odorosi frutti, albe immacolate,
cristalli ed ambre, acque fragorose,

dove, dove l'errabondo mercante
nelle dolcissime insidie ingrate
laccierà il riso suo inebriante ?




Istakar, 2






Languido all'ombra abbagliato del sogno,
del sole equoreo alla vampa eburna,
solo ed immoto nella mobile urna,
rubro solenne nel tramonto sogno

il rovo d'oro, e cantano usignoli
in orti azzurri e sul manto velluto
color di crisoprasso. Quivi soli
lire inebriassero arcane e muto

desiderio; oh, chimere lontane,
ròride di rosse labbra spiranti
sinuose onde di verde arcuato musco,

oh, spumose in bràmito corrusco
su scogli bronzei chiome divoranti;
voi, bacche di cinabro ed ansie umane.

Istakar, 1




Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

( Ch. Baudelaire, “ L'invitation au voyage “, Les fleurs du mal )



Ecco, nell'ombra del monte
vedo il mare, il mare d'oro;
ecco, di nuova fonte
m'innamoro.

Canta sul vello biondo;
ride il mare, il mare d'oro.
Il raggio canta, nascondo
l'aureo coro.

Entro nascondo, io sfinge,
tra il canto mio che trabocca
e il vento di verde attinge,
questo mare
in questa bocca.


Gabriele D'Annunzio, Venere d'acqua dolce.





 
I.
Ancora io t'odo su la riva, o Nara,
tra le selve de' giunchi e de' canneti
chiamar con le canzoni agile a gara
le cicale de' pioppi, ne' quieti
mezzogiorni di giugno! La Pescara
gorgogliava freschissima pe' i greti:
cantando, il piede breve e la rotonda
gamba tenevi tu, Nara, ne l'onda.
O selvativo bosco di Fusilli
pieno d'erbe aromatiche e di more,
ove di quella voce alta a li squilli
si destavan le capre da 'l sopore
e guatavan co' lunghi occhi tranquilli
in atto di pigrizia e di stupore,
o bosco, ed or tu dammi ne le ottave
l'aura de la tua verde ombra soave!
In questa siccità di mezzogiorno
un disío de la dolce acqua nativa
mi prende. Ora verdeggia ampia d'in torno
Villa Borghese; ed io su l'erba estiva
mi distendo supino, ed un ritorno
naturale di versi mi ravviva
le memorie; e non mai cosí da prima
larga, sonante mi fluí la rima.
Tu, Nara, dove sei, florida bionda
da la pelle bronzina di mulatta,
che avevi grigia l'iride profonda
e una stupenda agilità di gatta?
Tu non piú ritta in piedi su la sponda
vedi a l'alba passar me su la chiatta
in mezzo a 'l fiume, tra 'l rabbrividire
de le canne tendenti a rifiorire!
Te non piú camminante, tra un fogliame
di cocomeri e zucche aspro ed enorme,
io vedo, con un'anfora di rame
su 'l capo, ne 'l terreno imprimer l'orme
de 'l nudo pié! Tra i fumi de 'l letame
piú non vedo venire le tue forme,
o te diritta emerger fra le piante
de i girasoli, come un fior gigante!
II.
Tale prima io la scorsi. Era un'oscura
conca d'acque in un braccio solitario
de 'l fiume ove traverso la frescura
filtrava il sole a tratti agile e vario;
di sotto a una spalliera di verdura
tenera qualche tronco centenario
di salcio da le radiche scontorte
pareva un gruppo di vipere morte.
Io disteso ne 'l fieno, poi che a l'esca
non un sol pesce accorse, udivo il lento
mareggiare de 'l fieno a l'aria fresca
e de li alberi il gran frascheggiamento.
Trasalii; ché tra l'erba gigantesca
parve d'un tratto mi recasse il vento
un sentore di carne: il corpo eretto
di Nara, seminudo, a mezzo il petto,
sorgea fuori de l'erba. Ella con mite
fruscío tendea, strisciando, a la riviera:
le mazze sorde intorno le fiorite
spighe ergevano a lei. Come levriera
ella fiutava il vento, alta: ferite
da la provocatrice primavera
le sue nari vibravano; su 'l dorso
i suoi capelli ribellati a 'l morso
de 'l pettine cadevano. Un antico
di menade frammento era il suo busto
eretto, in quell'inconscio atto impudico.
Giunse a 'l limite: l'acqua ne l'angusto
cerchio stagnava, e fino a l'ombelico
la bagnò frescamente. A l'acre gusto
di quel fresco increspavasi la pelle
e dure si drizzavan le mammelle.
Io spiava tra l'erba. Ella, le braccia
protesa a un ramo, tutta sopra il saldo
fianco ondeggiò, levando alto la faccia
e la gola carnosa ove oro caldo
le si accendea. Poi, come serpe in caccia,
da 'l ramo si lanciò ne lo smeraldo
de l'acqua che in tempesta ampia si mosse
rifiorendo di schiume a le percosse.
Le nudità pieghevoli guizzanti,
ne 'l mister de la conca fluviale,
tra una greggia di foglie galleggianti
metteano un solco; e dietro il solco l'ale
il desiderio mio tratto a li incanti
de la carne battea rapido, quale
a 'l bosco richiamato da l'odore
de la preda selvaggia un avoltore.
Ma quando il corpo ella adagiò deterso
a fior de l'acqua e simili a scarlatte
bacche le cime de 'l suo sen riverso
galleggiarono, e il ventre suo di latte
palpitò di stanchezza, e de l'emerso
monte tra la peluria fina attratte
scintillaron le gocce, e ne la grigia
iride scintillò la cupidigia
de 'l piacere, io che in quel riarso letto
d'erbe in silenzio mi torcea, ferito
da un intenso desío, tale da 'l petto
per non piú soffocar misi un bramito,
che con rapido moto ella in sospetto
si volse. Poi, qual cerva che a l'invito
de l'amore fiutando erge la testa
se oda il maschio passar ne la foresta,
la giovine guatò, senza paura,
in attesa di pugna... Oh come, oh come
a l'agguato de 'l sol la sua figura
tutta ne la ricchezza de le chiome
si porse e in van pugnante a la congiura
dei virgulti e di me rese le dome
braccia!... - Cantavan alto biancheggiando
consapevoli i pioppi in linea, quando
a 'l ritorno vogai. Su la Pescara
lontanava de' pioppi il colonnato,
e fra li intercolunnii, ne la chiara
serenità, moriva il sol tuffato
in caldi fiumi. Una fragranza amara
di succhi co 'l sentor de 'l fien falciato
da quell'ammasso vegetale, a 'l lento
naufragare de 'l sole, urgea ne 'l vento.
III.
E cosí tante volte io sovra il letto
de l'erbe amai quella superba e rude
Venere fluvïale, ne 'l conspetto
de' pioppi. Ed entro il cerchio de le ignude
braccia, a 'l profumo de l'ignudo petto
il mio vigore lentamente in crude
lascivie illanguidiva. Era una morte
oblïosa, un incanto ove la forte
adolescenza si perdeva; in quella
primavera de 'l fiume, in quel felice
risveglio de la patria. Una novella
onda di umore su da la radice
prendea le cime, qual da una mammella
di femmina gigante, irrigatrice
di vite, il latte; ed una sonnolenza
quasi di parto ad ora ad or l'ardenza
addolciva de l'aria; e da 'l lavoro
augusto de le vite rinnovate,
ne 'l silenzio de l'aria, come un coro
naturale saliva; e de l'estate
l'alito già saliva; e a messidoro
i canti, ne le vigne soleggiate,
tra i solchi de 'l fromento, pe' i lontani
culmini già salíano, i canti umani!
Noi portammo una viva ecloga in fiore
a traverso i tumulti. In ogni nervo
io sentiva fuggirsene il vigore;
ma tenuto a quel corpo io, come un servo
a 'l suo ferro, non grido altro d'amore
avea per Nara che il bramir de 'l cervo
in disío. Quando muta ella tra i fusti
appariva de' pioppi, su i robusti
fianchi ondeggiante, ne 'l novilunare
auspicio, e le sue chiome ardue di rame
si tingeano e la voglia entro le chiare
iridi ardeva in folgori di lame,
io mi sentiva i muscoli tremare
di febbre. Ella venía, bella ed infame,
a sazïarsi. Ed io non la tenea
per conquista: ella a me, come una dea
a la gente mortale, il godimento
de le membra concesse. Alta, su 'l fieno,
senza pietà, me ne l'abbattimento
lasciava; con quel grande occhio sereno
riguardandomi, lungi a passo lento
perdevasi ne l'ombre. Ma il veleno
de le lussurie sue ne le mie carni
s'insinuava a rodermi li scarni
fianchi; ma de la sua pelle i tenaci
effluvi una prurigine lasciva
dàvanmi a 'l sangue; ma de' lunghi baci
mi restava il sapor ne la saliva,
quando a provar carezze meglio audaci
con la sua lingua su la mia gengiva
ella scorreva e tra la molle bava
le labbra con i denti mi segnava.
IV.
Era Venere nova, dea presente:
ne 'l suo nudo di marmo il sol di maggio
avea diffuso un alito di ardente
oro. Parea che tutta a 'l suo passaggio
la gran riva sentisse inconscïente
la presenza di un nume, in un selvaggio
anelito, e da l'erbe alte i cachinni
de' fauni uscissero e di Pane gl'inni.
V.
Poi disparve; qual dea. Sotto i discreti
pioppi io l'attesi, vigilando in vano
se tra i fochi de 'l vespro pe' i canneti,
come un giorno, scendesse di lontano.
Ebbero altri amatori, altri poeti
il profumo d'amor di quell'umano
fiore? O il fior de le membra ne le spume
misteriose de 'l nativo fiume
si disciolse? - Io non so. Ma la verdura
dove io primo l'amai, dove sommessa
ella si diede a me tutta, la pura
forma de i lombi e de le reni impressa
ritenne, come se per avventura
una statua di bronzo tra la spessa
erba abbattuta già da tempo antico
fosse rimasta. Ed in quell'impudico
segno d'amore e di piacere io steso,
quale un corpo di morto in una bara,
sentii crescere ancor sotto il mio peso
i fili d'erba, udii ne la Pescara
correre l'acqua; e da 'l mio sangue acceso
rifiorivano i baci acri di Nara,
come oggi, in molli versi che per l'aria
si perdevan ne l'ora solitaria.
FINE

domenica 5 gennaio 2014

Fiaba





In una remota contrada della Persia era una città popolosa governata da un potente sovrano.
Questo principe dimorava in un palazzo di marmo e d'oro, le cui altissime torri al cielo innalzavano cupole di smeraldo, e un immenso parco di palme, di magnolie e di ippocastani, e d'ogni sorta di piante d'alto fusto e di arbusti e di fiori lo circondava.
Questo parco era custodito da immensi elefanti che, addestrati appositamente, avevano lo stesso compito svolto nelle case dei sudditi dai cani o dalle oche.
E nell'immenso parco correva il sacro fiume Alph, che poi svaniva in smisurate caverne giù verso il mare oscuro, e dissetava foreste inebrianti di fiori e di aromi, antiche quanto le pietre delle colline. E cascate tumultuose precipitavano in vasti laghi dove affioravano mostruose teste di coccodrilli giganteschi, quasi terrificanti draghi, e ippopotami spalancavano le fauci scuotendo il corpo enorme.
E una voragine velata da un folto bosco di cedri ospitava amorosi incontri, echeggiando di lamenti durante le notti di luna piena e di magiche invocazioni.
Era un luogo incantevole come la valle felice ove un tempo sorgeva la dimora di Rasselas, saggio principe d'Abissinia, anzi era ancora più affascinante della vallata africana. Era una valle segregata dal resto del mondo e la reggia che ivi sorgeva era davvero pari al maestoso duomo di piaceri del leggendario Kubla Khan.
Altissime ed agili colonne d'oro e d'argento reggevano una volta verde come i laghi quieti delle montagne, e intagli ed arabeschi cingevano d'ombre serpentine la luce come rovi nelle foreste. E vapori da bracieri di resine profumate vagavano per l'aria opaca, mentre un canto si librava per le arcate leggiadre al suono dell'arpa ispiratrice di sogni.
Una mobilia di forme bizzarre costellata di tasselli eburnei incorniciava le sale i cui pavimenti erano cosparsi di tappeti variopinti. Da tavolini rotondi esalavano aromi di bevande recluse in esili brocche di bronzo dorato e vasi adorni di mirabili dipinti erano disposti colmi di fiori sui marmi del pavimento. E rose, gigli, giacinti, anemoni e narcisi olezzavano e blandivano come una musica lene.
Ed ampi divani coverti da drappi rubri e di broccato invitavano agli indugi dei sensi avvivati dallo splendore delle pietre lucide e maliose e inestimabili dei cofani di cedro dischiusi.
Ma in questa dimora era il principe oppresso dal tedio e dalla torbida angoscia, non rallegrato dai canti né dallo splendore dell'oro né dal profumo del talamo né dall'obbedienza dei servi e dagl'inchini della corte, e indifferente assisteva al morire dei sudditi e al sorriso delle ancelle.
Egli era posseduto dalla malinconia, poi che era innamorato dell'imperatrice di Babilonia, irraggiungibile in un paese remoto, inavvicinabile nell'alta torre di Barsipa.
Egli era silente come un essere arboreo recinto di ombre, nel quale fluisce la linfa lentamente.
Talvolta immoto restava dinanzi al lago dei cigni. L'acqua verde rifletteva i raggi che calavano come velati lumi dall'alto della volta di fronde e lievi coronavano le ninfee.
Egli non gioiva degli eleganti volteggiamenti degli insetti dalle ali scintillanti di raggi d'oro e di aneliti d'acque, ma un cruccio invincibile rodeva il suo cuore. Ed era quasi una statua d'un dio vetusto e dimenticato, privo di luce e di sorriso. Lo specchio d'acque era per lui profondo e oscuro, come la coscienza.
Osservava l'ondeggiare delicato dell'acqua trasparente, che sempre mobile e mutevole sempre rimaneva la stessa, e ascoltava anche le parole del savio maestro, un uomo canuto e autorevole, che diceva : “ Per quale motivo, o discepolo, mi sei triste ? Ma la tua tristezza è il sorriso del cielo. “
Eppure egli non sorrideva.
Da rive lontane i messaggeri alcioni gli avevano confidato doni funesti. Aveva schiuso segreti scrigni donde esalarono profumi pregni di lusinghe mortali. Ed un filtro devastatore, contro il quale nessun rimedio valeva, avvelenava il suo sangue.
Vedeva fluire il suo respiro come onda nella notte. Gli fluttuava un umore maligno entro l'oscurità dell'essere. Egli sapeva.
Ormai da lungo tempo era prigioniero della solitudine e pensieri ostili quali immondi rospi gonfi di veleno ingombravano la sua mente debole. Una divinità crudele e avversa alla vita degli uomini si compiaceva nel torturare il suo animo, nell'umiliarlo e denigrarlo di fronte a se stesso.
Ed errabondo gli s'immergeva lo spirito nell'aureo alone di voluttuosi sogni come gorghi smeraldini, e soffocava nelle strette mortali delle sirene. Ed una mano avida di dèmone afferrava la sua nuca ed in saldi nodi fortificava gli artigli nel rabbioso dominio.
Egli odiava se stesso, poi che più non era se stesso.
La febbre maligna lo avviliva, pervadendo le vene di putrido torpore. Un liquame fetido occludeva come fanghiglia le vie della vita.
Una stanchezza terribile gli pesava sul cuore. E a lui pareva di essere un simulacro di volgare pietra.

Un giorno vide nel giardino le fanciulle. Tenui e delicate erano e vivaci. Le loro membra erano fragranti come i petali delle rose freschi di rugiada. E nei giochi la voce era quale una gioia di rondini in cielo. Ridevano di un riso di bimbo.
Ed egli si avvicinò alle fanciulle.
La loro pelle luminosa era profumata come i calici inebrianti dei fiori che sbocciano presso i ruscelli delle montagne, quando le selve si risvegliano e le fronde fremono dopo il lungo sonno.
E vide nei loro occhi l'incanto del mattino, quando la brezza marina vellicava le braccia nodose degli ulivi e alitava agli orti carichi di aromi.
Una fanciulla egli vide, splendente della luce leggiadra dell'aurora. Le sue chiome erano il respiro del mare, frescose e bionde quali onde d'oro. Gli occhi erano grandi, profondi e bruni quali acque autunnali, alle cui rive sosta il viandante pensieroso.
Ella era leggera ed agile come una creatura del bosco.
Ed egli vide se stesso. Vide il suo volto come l'acqua immota degli stagni, quando d'autunno le foglie morte si dissolvono sul fondo e in superficie e li colorano della loro morte.
Ed egli vide il dio indifferente, seduto sul trono del tempo. Gli occhi erano grandi, profondi quali acque immobili. In essi non si rifletteva, ma si perdeva la luce negli abissi.

Come un fauno dispare fra le ombre della foresta, così egli partiva per la grande caccia.
Squillarono le trombe e rullarono i tamburi, una schiera di elefanti drappeggiati con damaschi purpurei, turchini e dorati, recanti sulla groppa turrite cabine lignee colme d'arcieri, levando la proboscide rilucente di enormi anelli con rubini e smeraldi e agitando come grandi ali le orecchie, che ventavano sui flabelli delle torri e sulle corone di penne di struzzo sovra la massiccia testa, lentamente si mosse dietro il principe. E il principe, furtivamente al modo delle lepri timorose, s'era addentrato nella selva, seguendo il fedele cagnolino.
Riposava la foresta e respirava nel sonno pomeridiano, e il suo sospiro sorgeva dal palpito del profondo cuore, quale calmo alitare dal seno d'una madre.
E il cagnolino nero precedeva il padrone. Era cucciolo ancora, ma non sarebbe cresciuto. La sua razza l'aveva predestinato alle piccole prede. Era morbido al tatto il corto pelo e il corpo era tenero. Aveva occhi grandi e scuri, come l'acqua d'un lago notturno. Giocava con un'arancia caduta, immergendosi nell'erba, mordicchiandola con i bianchi canini, assaporando incredulo l'aroma e l'essenza acidula del frutto. E la faceva rotolare e impaurito dal movimento abbaiava con voce squillante, saltellando irrequieto; poi l'odore gradevole della bacca lucida lo attirava di nuovo.
E il principe camminava tra i grandi alberi e la sua pupilla era assetata dei raggi tra le volte verdi come luce fra le vetrate d'un tempio. E gli occhi bevevano quale il manto delle foglie perdute in autunno o come l'immota palude si saziano di luce.
Un mormorio morente gli annunciò la sosta del corteo regale. Ma egli aveva abbandonato il mondo rumoroso degli uomini e la compagnia dei servi.

O luminoso respiro che inondi
tra la fronda canora le ombre lievi
del sogno lontano, dove riposa
mia dimora per sempre, tra verdi
arcani, o scorribande del sole,
o sorriso ultimo d'esilio,
vieni tormento e pace. Dove
riposa il flutto e canta la stirpe
delle api, qui scorre il dolce miele
di primavera, e sertocoronati
cori alla valle effondono il silenzio.

Gli alti rami mormoravano al vento lieve, un'onda di ricordi lo attrasse a sé quasi una sinfonia di incanti. E gli parve che la luce corresse tra le piante centenarie, una fanciulla ridente. Lontano udiva echeggiare il suono del corno.
I raggi tiepidi trasparivano fra le fronde, illuminando i tronchi rivestiti di muschio, e si posavano su di lui, carezzandolo. Un dolce tepore lo invitava al riposo, e, come egli si fu coricato sopra il terreno soffice del sottobosco, il sonno lo insidiò col suo alito, quale in un pomeriggio estivo.