Nell’ombra
smarrendosi, dissolvendosi, errava verso brume lontane, diffuse nelle
vallate, sorgenti tra rocce livide, bramose di tempeste. Laggiù
gracchiavano corvi, rumoreggiavano acque. Un sordo tonare saliva dal
grembo della montagna. Sparsi fuochi levitavano sagome danzanti e
minacciose, e strida acute aleggiavano di rapaci notturni.
Forse
fughe tra rami contorti, nel folto dei boschi, forse rapite estasi ed
inni di gioia selvaggia gareggiavano coi vagiti e i mugolii delle
tenebre. Strane note d’ignoti strumenti scaturivano dal profondo,
dalle macchie nere sotto i dirupi, dalle gole nascoste alla luna.
E
il mare, selvaggio e crinito, urlava contro le rocce, laggiù
nell’oscurità, a tratti inluminata dalla lampada notturna, quasi
dietro le nubi frante sorgesse erta da un braccio misterioso. Urlava
e sibilava, un tortuoso immane serpente verde, un drago dalla cresta
irta e biancastra, fluente chioma incolta.
Nel
vago lamento sorgevano, fra i vapori salsi, fuochi sulfurei, un
corteo sinuoso saliva per il pendio, una nenia rotta da improvvisi
silenzi avanzava, scaturita dal gorgo profondo, un mistico coro
ascendeva dai meandri di una stigia palude. Nel folto dei canneti
echeggiava un uluco maligno. E il grido si mesceva al roco afflato
delle onde perse.
E
perso egli era nell’ombra cupa del suo destino, un rigagnolo
dilungantesi nel fango e tra le zolle cespose e pallide sotto la luna
esangue. Forse anch’egli fatalmente volgeva a cogliere ingenuo i
grani purpurei della punica mela e a inghiottirli, per sempre
nell’abisso della propria condanna ?
Rispose
un nero tuono, e fremette vacillando come all’aprirsi d’un
baratro sotto di lui.
La
nebbia ribolliva intorno alle rocce, i nembi sorgevano attorti e
solidi sotto di lui, bianchi e sulfurei, quasi schiuma da frementi
oceani del cupo inferno, i cui flutti s’infrangono sul lido vivido,
sparso di sassi come teste tronche di dannati.
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