In
una remota contrada della Persia era una città popolosa governata da
un potente sovrano.
Questo
principe dimorava in un palazzo di marmo e d'oro, le cui altissime
torri al cielo innalzavano cupole di smeraldo, e un immenso parco di
palme, di magnolie e di ippocastani, e d'ogni sorta di piante d'alto
fusto e di arbusti e di fiori lo circondava.
Questo
parco era custodito da immensi elefanti che, addestrati
appositamente, avevano lo stesso compito svolto nelle case dei
sudditi dai cani o dalle oche.
E
nell'immenso parco correva il sacro fiume Alph, che poi svaniva in
smisurate caverne giù verso il mare oscuro, e dissetava foreste
inebrianti di fiori e di aromi, antiche quanto le pietre delle
colline. E cascate tumultuose precipitavano in vasti laghi dove
affioravano mostruose teste di coccodrilli giganteschi, quasi
terrificanti draghi, e ippopotami spalancavano le fauci scuotendo il
corpo enorme.
E
una voragine velata da un folto bosco di cedri ospitava amorosi
incontri, echeggiando di lamenti durante le notti di luna piena e di
magiche invocazioni.
Era
un luogo incantevole come la valle felice ove un tempo sorgeva la
dimora di Rasselas, saggio principe d'Abissinia, anzi era ancora più
affascinante della vallata africana. Era una valle segregata dal
resto del mondo e la reggia che ivi sorgeva era davvero pari al
maestoso duomo di piaceri del leggendario Kubla Khan.
Altissime
ed agili colonne d'oro e d'argento reggevano una volta verde come i
laghi quieti delle montagne, e intagli ed arabeschi cingevano d'ombre
serpentine la luce come rovi nelle foreste. E vapori da bracieri di
resine profumate vagavano per l'aria opaca, mentre un canto si
librava per le arcate leggiadre al suono dell'arpa ispiratrice di
sogni.
Una
mobilia di forme bizzarre costellata di tasselli eburnei incorniciava
le sale i cui pavimenti erano cosparsi di tappeti variopinti. Da
tavolini rotondi esalavano aromi di bevande recluse in esili brocche
di bronzo dorato e vasi adorni di mirabili dipinti erano disposti
colmi di fiori sui marmi del pavimento. E rose, gigli, giacinti,
anemoni e narcisi olezzavano e blandivano come una musica lene.
Ed
ampi divani coverti da drappi rubri e di broccato invitavano agli
indugi dei sensi avvivati dallo splendore delle pietre lucide e
maliose e inestimabili dei cofani di cedro dischiusi.
Ma
in questa dimora era il principe oppresso dal tedio e dalla torbida
angoscia, non rallegrato dai canti né dallo splendore dell'oro né
dal profumo del talamo né dall'obbedienza dei servi e dagl'inchini
della corte, e indifferente assisteva al morire dei sudditi e al
sorriso delle ancelle.
Egli
era posseduto dalla malinconia, poi che era innamorato
dell'imperatrice di Babilonia, irraggiungibile in un paese remoto,
inavvicinabile nell'alta torre di Barsipa.
Egli
era silente come un essere arboreo recinto di ombre, nel quale
fluisce la linfa lentamente.
Talvolta
immoto restava dinanzi al lago dei cigni. L'acqua verde rifletteva i
raggi che calavano come velati lumi dall'alto della volta di fronde e
lievi coronavano le ninfee.
Egli
non gioiva degli eleganti volteggiamenti degli insetti dalle ali
scintillanti di raggi d'oro e di aneliti d'acque, ma un cruccio
invincibile rodeva il suo cuore. Ed era quasi una statua d'un dio
vetusto e dimenticato, privo di luce e di sorriso. Lo specchio
d'acque era per lui profondo e oscuro, come la coscienza.
Osservava
l'ondeggiare delicato dell'acqua trasparente, che sempre mobile e
mutevole sempre rimaneva la stessa, e ascoltava anche le parole del
savio maestro, un uomo canuto e autorevole, che diceva : “ Per
quale motivo, o discepolo, mi sei triste ? Ma la tua tristezza è il
sorriso del cielo. “
Eppure
egli non sorrideva.
Da
rive lontane i messaggeri alcioni gli avevano confidato doni funesti.
Aveva schiuso segreti scrigni donde esalarono profumi pregni di
lusinghe mortali. Ed un filtro devastatore, contro il quale nessun
rimedio valeva, avvelenava il suo sangue.
Vedeva
fluire il suo respiro come onda nella notte. Gli fluttuava un umore
maligno entro l'oscurità dell'essere. Egli sapeva.
Ormai
da lungo tempo era prigioniero della solitudine e pensieri ostili
quali immondi rospi gonfi di veleno ingombravano la sua mente debole.
Una divinità crudele e avversa alla vita degli uomini si compiaceva
nel torturare il suo animo, nell'umiliarlo e denigrarlo di fronte a
se stesso.
Ed
errabondo gli s'immergeva lo spirito nell'aureo alone di voluttuosi
sogni come gorghi smeraldini, e soffocava nelle strette mortali delle
sirene. Ed una mano avida di dèmone afferrava la sua nuca ed in
saldi nodi fortificava gli artigli nel rabbioso dominio.
Egli
odiava se stesso, poi che più non era se stesso.
La
febbre maligna lo avviliva, pervadendo le vene di putrido torpore. Un
liquame fetido occludeva come fanghiglia le vie della vita.
Una
stanchezza terribile gli pesava sul cuore. E a lui pareva di essere
un simulacro di volgare pietra.
Un
giorno vide nel giardino le fanciulle. Tenui e delicate erano e
vivaci. Le loro membra erano fragranti come i petali delle rose
freschi di rugiada. E nei giochi la voce era quale una gioia di
rondini in cielo. Ridevano di un riso di bimbo.
Ed
egli si avvicinò alle fanciulle.
La
loro pelle luminosa era profumata come i calici inebrianti dei fiori
che sbocciano presso i ruscelli delle montagne, quando le selve si
risvegliano e le fronde fremono dopo il lungo sonno.
E
vide nei loro occhi l'incanto del mattino, quando la brezza marina
vellicava le braccia nodose degli ulivi e alitava agli orti carichi
di aromi.
Una
fanciulla egli vide, splendente della luce leggiadra dell'aurora. Le
sue chiome erano il respiro del mare, frescose e bionde quali onde
d'oro. Gli occhi erano grandi, profondi e bruni quali acque
autunnali, alle cui rive sosta il viandante pensieroso.
Ella
era leggera ed agile come una creatura del bosco.
Ed
egli vide se stesso. Vide il suo volto come l'acqua immota degli
stagni, quando d'autunno le foglie morte si dissolvono sul fondo e in
superficie e li colorano della loro morte.
Ed
egli vide il dio indifferente, seduto sul trono del tempo. Gli occhi
erano grandi, profondi quali acque immobili. In essi non si
rifletteva, ma si perdeva la luce negli abissi.
Come
un fauno dispare fra le ombre della foresta, così egli partiva per
la grande caccia.
Squillarono
le trombe e rullarono i tamburi, una schiera di elefanti drappeggiati
con damaschi purpurei, turchini e dorati, recanti sulla groppa
turrite cabine lignee colme d'arcieri, levando la proboscide
rilucente di enormi anelli con rubini e smeraldi e agitando come
grandi ali le orecchie, che ventavano sui flabelli delle torri e
sulle corone di penne di struzzo sovra la massiccia testa, lentamente
si mosse dietro il principe. E il principe, furtivamente al modo
delle lepri timorose, s'era addentrato nella selva, seguendo il
fedele cagnolino.
Riposava
la foresta e respirava nel sonno pomeridiano, e il suo sospiro
sorgeva dal palpito del profondo cuore, quale calmo alitare dal seno
d'una madre.
E
il cagnolino nero precedeva il padrone. Era cucciolo ancora, ma non
sarebbe cresciuto. La sua razza l'aveva predestinato alle piccole
prede. Era morbido al tatto il corto pelo e il corpo era tenero.
Aveva occhi grandi e scuri, come l'acqua d'un lago notturno. Giocava
con un'arancia caduta, immergendosi nell'erba, mordicchiandola con i
bianchi canini, assaporando incredulo l'aroma e l'essenza acidula del
frutto. E la faceva rotolare e impaurito dal movimento abbaiava con
voce squillante, saltellando irrequieto; poi l'odore gradevole della
bacca lucida lo attirava di nuovo.
E
il principe camminava tra i grandi alberi e la sua pupilla era
assetata dei raggi tra le volte verdi come luce fra le vetrate d'un
tempio. E gli occhi bevevano quale il manto delle foglie perdute in
autunno o come l'immota palude si saziano di luce.
Un
mormorio morente gli annunciò la sosta del corteo regale. Ma egli
aveva abbandonato il mondo rumoroso degli uomini e la compagnia dei
servi.
O
luminoso respiro che inondi
tra
la fronda canora le ombre lievi
del
sogno lontano, dove riposa
mia
dimora per sempre, tra verdi
arcani,
o scorribande del sole,
o
sorriso ultimo d'esilio,
vieni
tormento e pace. Dove
riposa
il flutto e canta la stirpe
delle
api, qui scorre il dolce miele
di
primavera, e sertocoronati
cori
alla valle effondono il silenzio.
Gli
alti rami mormoravano al vento lieve, un'onda di ricordi lo attrasse
a sé quasi una sinfonia di incanti. E gli parve che la luce corresse
tra le piante centenarie, una fanciulla ridente. Lontano udiva
echeggiare il suono del corno.
I
raggi tiepidi trasparivano fra le fronde, illuminando i tronchi
rivestiti di muschio, e si posavano su di lui, carezzandolo. Un dolce
tepore lo invitava al riposo, e, come egli si fu coricato sopra il
terreno soffice del sottobosco, il sonno lo insidiò col suo alito,
quale in un pomeriggio estivo.
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