domenica 5 gennaio 2014

Fiaba





In una remota contrada della Persia era una città popolosa governata da un potente sovrano.
Questo principe dimorava in un palazzo di marmo e d'oro, le cui altissime torri al cielo innalzavano cupole di smeraldo, e un immenso parco di palme, di magnolie e di ippocastani, e d'ogni sorta di piante d'alto fusto e di arbusti e di fiori lo circondava.
Questo parco era custodito da immensi elefanti che, addestrati appositamente, avevano lo stesso compito svolto nelle case dei sudditi dai cani o dalle oche.
E nell'immenso parco correva il sacro fiume Alph, che poi svaniva in smisurate caverne giù verso il mare oscuro, e dissetava foreste inebrianti di fiori e di aromi, antiche quanto le pietre delle colline. E cascate tumultuose precipitavano in vasti laghi dove affioravano mostruose teste di coccodrilli giganteschi, quasi terrificanti draghi, e ippopotami spalancavano le fauci scuotendo il corpo enorme.
E una voragine velata da un folto bosco di cedri ospitava amorosi incontri, echeggiando di lamenti durante le notti di luna piena e di magiche invocazioni.
Era un luogo incantevole come la valle felice ove un tempo sorgeva la dimora di Rasselas, saggio principe d'Abissinia, anzi era ancora più affascinante della vallata africana. Era una valle segregata dal resto del mondo e la reggia che ivi sorgeva era davvero pari al maestoso duomo di piaceri del leggendario Kubla Khan.
Altissime ed agili colonne d'oro e d'argento reggevano una volta verde come i laghi quieti delle montagne, e intagli ed arabeschi cingevano d'ombre serpentine la luce come rovi nelle foreste. E vapori da bracieri di resine profumate vagavano per l'aria opaca, mentre un canto si librava per le arcate leggiadre al suono dell'arpa ispiratrice di sogni.
Una mobilia di forme bizzarre costellata di tasselli eburnei incorniciava le sale i cui pavimenti erano cosparsi di tappeti variopinti. Da tavolini rotondi esalavano aromi di bevande recluse in esili brocche di bronzo dorato e vasi adorni di mirabili dipinti erano disposti colmi di fiori sui marmi del pavimento. E rose, gigli, giacinti, anemoni e narcisi olezzavano e blandivano come una musica lene.
Ed ampi divani coverti da drappi rubri e di broccato invitavano agli indugi dei sensi avvivati dallo splendore delle pietre lucide e maliose e inestimabili dei cofani di cedro dischiusi.
Ma in questa dimora era il principe oppresso dal tedio e dalla torbida angoscia, non rallegrato dai canti né dallo splendore dell'oro né dal profumo del talamo né dall'obbedienza dei servi e dagl'inchini della corte, e indifferente assisteva al morire dei sudditi e al sorriso delle ancelle.
Egli era posseduto dalla malinconia, poi che era innamorato dell'imperatrice di Babilonia, irraggiungibile in un paese remoto, inavvicinabile nell'alta torre di Barsipa.
Egli era silente come un essere arboreo recinto di ombre, nel quale fluisce la linfa lentamente.
Talvolta immoto restava dinanzi al lago dei cigni. L'acqua verde rifletteva i raggi che calavano come velati lumi dall'alto della volta di fronde e lievi coronavano le ninfee.
Egli non gioiva degli eleganti volteggiamenti degli insetti dalle ali scintillanti di raggi d'oro e di aneliti d'acque, ma un cruccio invincibile rodeva il suo cuore. Ed era quasi una statua d'un dio vetusto e dimenticato, privo di luce e di sorriso. Lo specchio d'acque era per lui profondo e oscuro, come la coscienza.
Osservava l'ondeggiare delicato dell'acqua trasparente, che sempre mobile e mutevole sempre rimaneva la stessa, e ascoltava anche le parole del savio maestro, un uomo canuto e autorevole, che diceva : “ Per quale motivo, o discepolo, mi sei triste ? Ma la tua tristezza è il sorriso del cielo. “
Eppure egli non sorrideva.
Da rive lontane i messaggeri alcioni gli avevano confidato doni funesti. Aveva schiuso segreti scrigni donde esalarono profumi pregni di lusinghe mortali. Ed un filtro devastatore, contro il quale nessun rimedio valeva, avvelenava il suo sangue.
Vedeva fluire il suo respiro come onda nella notte. Gli fluttuava un umore maligno entro l'oscurità dell'essere. Egli sapeva.
Ormai da lungo tempo era prigioniero della solitudine e pensieri ostili quali immondi rospi gonfi di veleno ingombravano la sua mente debole. Una divinità crudele e avversa alla vita degli uomini si compiaceva nel torturare il suo animo, nell'umiliarlo e denigrarlo di fronte a se stesso.
Ed errabondo gli s'immergeva lo spirito nell'aureo alone di voluttuosi sogni come gorghi smeraldini, e soffocava nelle strette mortali delle sirene. Ed una mano avida di dèmone afferrava la sua nuca ed in saldi nodi fortificava gli artigli nel rabbioso dominio.
Egli odiava se stesso, poi che più non era se stesso.
La febbre maligna lo avviliva, pervadendo le vene di putrido torpore. Un liquame fetido occludeva come fanghiglia le vie della vita.
Una stanchezza terribile gli pesava sul cuore. E a lui pareva di essere un simulacro di volgare pietra.

Un giorno vide nel giardino le fanciulle. Tenui e delicate erano e vivaci. Le loro membra erano fragranti come i petali delle rose freschi di rugiada. E nei giochi la voce era quale una gioia di rondini in cielo. Ridevano di un riso di bimbo.
Ed egli si avvicinò alle fanciulle.
La loro pelle luminosa era profumata come i calici inebrianti dei fiori che sbocciano presso i ruscelli delle montagne, quando le selve si risvegliano e le fronde fremono dopo il lungo sonno.
E vide nei loro occhi l'incanto del mattino, quando la brezza marina vellicava le braccia nodose degli ulivi e alitava agli orti carichi di aromi.
Una fanciulla egli vide, splendente della luce leggiadra dell'aurora. Le sue chiome erano il respiro del mare, frescose e bionde quali onde d'oro. Gli occhi erano grandi, profondi e bruni quali acque autunnali, alle cui rive sosta il viandante pensieroso.
Ella era leggera ed agile come una creatura del bosco.
Ed egli vide se stesso. Vide il suo volto come l'acqua immota degli stagni, quando d'autunno le foglie morte si dissolvono sul fondo e in superficie e li colorano della loro morte.
Ed egli vide il dio indifferente, seduto sul trono del tempo. Gli occhi erano grandi, profondi quali acque immobili. In essi non si rifletteva, ma si perdeva la luce negli abissi.

Come un fauno dispare fra le ombre della foresta, così egli partiva per la grande caccia.
Squillarono le trombe e rullarono i tamburi, una schiera di elefanti drappeggiati con damaschi purpurei, turchini e dorati, recanti sulla groppa turrite cabine lignee colme d'arcieri, levando la proboscide rilucente di enormi anelli con rubini e smeraldi e agitando come grandi ali le orecchie, che ventavano sui flabelli delle torri e sulle corone di penne di struzzo sovra la massiccia testa, lentamente si mosse dietro il principe. E il principe, furtivamente al modo delle lepri timorose, s'era addentrato nella selva, seguendo il fedele cagnolino.
Riposava la foresta e respirava nel sonno pomeridiano, e il suo sospiro sorgeva dal palpito del profondo cuore, quale calmo alitare dal seno d'una madre.
E il cagnolino nero precedeva il padrone. Era cucciolo ancora, ma non sarebbe cresciuto. La sua razza l'aveva predestinato alle piccole prede. Era morbido al tatto il corto pelo e il corpo era tenero. Aveva occhi grandi e scuri, come l'acqua d'un lago notturno. Giocava con un'arancia caduta, immergendosi nell'erba, mordicchiandola con i bianchi canini, assaporando incredulo l'aroma e l'essenza acidula del frutto. E la faceva rotolare e impaurito dal movimento abbaiava con voce squillante, saltellando irrequieto; poi l'odore gradevole della bacca lucida lo attirava di nuovo.
E il principe camminava tra i grandi alberi e la sua pupilla era assetata dei raggi tra le volte verdi come luce fra le vetrate d'un tempio. E gli occhi bevevano quale il manto delle foglie perdute in autunno o come l'immota palude si saziano di luce.
Un mormorio morente gli annunciò la sosta del corteo regale. Ma egli aveva abbandonato il mondo rumoroso degli uomini e la compagnia dei servi.

O luminoso respiro che inondi
tra la fronda canora le ombre lievi
del sogno lontano, dove riposa
mia dimora per sempre, tra verdi
arcani, o scorribande del sole,
o sorriso ultimo d'esilio,
vieni tormento e pace. Dove
riposa il flutto e canta la stirpe
delle api, qui scorre il dolce miele
di primavera, e sertocoronati
cori alla valle effondono il silenzio.

Gli alti rami mormoravano al vento lieve, un'onda di ricordi lo attrasse a sé quasi una sinfonia di incanti. E gli parve che la luce corresse tra le piante centenarie, una fanciulla ridente. Lontano udiva echeggiare il suono del corno.
I raggi tiepidi trasparivano fra le fronde, illuminando i tronchi rivestiti di muschio, e si posavano su di lui, carezzandolo. Un dolce tepore lo invitava al riposo, e, come egli si fu coricato sopra il terreno soffice del sottobosco, il sonno lo insidiò col suo alito, quale in un pomeriggio estivo.



 
 

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