Il
pendolo d'un grande orologio oscillava entro l'oblò dell'alta cassa
lignea, e su di un tavolo, intarsiato e protetto da una trina bianca
ed elaborata, era un grammofono che, qual prodigioso fiore o calice,
emetteva armonie per una tromba imponente. E la musica in volute
lievi, tenaci, e fragorose s'innalzava verso la cupola, illustrata,
negli affreschi ingenui, da una luce serotina che s'intrometteva per
vetrate multicolori e circolari.
Il
palazzo era circondato da una vegetazione fitta e disordinata di
palme, di agavi, di iucche, d'eucalipti, di cactacee, di araucarie,
di magnolie, e imitava il parco nell'architettura eclettica e
floreale : sopra colonne corinzie gli architravi erano incastonati in
una fabbrica rococò che vantava tre cupole coronate, e sovra gli
architravi erano i rosoni, somiglianti ad occhi guardiani o a
eliotropi perenni.
In
una stanza, dove i tardi raggi s'affiochivano tra cortinaggi guarniti
di falpalà e languivano sui tappeti cupi e sul coperchio della
teiera d'argento e guizzavano ancora in un barlume di rame nel té
restato nella tazza di porcellana cinese, era un giovane dormente in
un divano.
Egli
sognava d'essere sulla spiaggia, sopra una roccia alla cui base
barbugliavano le onde, e di mirare l'infinita piana delle acque sulle
quali si dilungava la ferita del sole morente.
Udiva
un canto dolcissimo, che forse sorgeva da un promontorio non a grande
distanza, e ne percepiva distintamente le parole :
“
Sirene
del mare, dell'onda muse
purpuree
all'eco cianeo remoto
dei
manti flavi, canti e arpe confuse,
fili
d'oro d'aulite chiome e al loto
libico
suoni di rive d'Asia,
flutti
ove mormora l'ultima coppa
stanca
del miele dell'Imetto amasia;
simposii
senza corone, galoppa
l'ultimo
innito, spiro delle dune
dei
neri frutti gravide, il vento
donde
incubo vigorisce in crune
d'ago
scempio di sogni, e me violento
deruba,
barbaro, e voi, albo coro,
crespo
crine, figlie del fiume d'oro. “
E
mentre la sua vita s'inabissava in un torpore immobile, quale il
simulacro d'un dio pagano, perduto alla memoria di popoli vecchi,
discerse un bagliore rubescente approssimarsi rapido.
Un
corsiero fulvo, dalla iuba ignea, dalle froge fremide e dalle orbite
sanguigne era aggiogato alle braccia tenaci d'una femmina dalla rossa
chioma, coverta d'una tunica bianca. E, poi ch'ella giunse appresso
alla rupe, arrestò la bestia, e a lui fissava gli occhi nel volto.
Ella
lo fissava con i suoi occhi che fosforeggiavano d'un ardore di
smeraldo, le ciocche del capo s'enfiavano quasi aspidi insidiosi,
impallidiva esangue. Così certo un tempo le schiere temerarie dei
valorosi impietriva Medusa.
Una
melodia fascinatrice, quale quella del leuto argenteo che Leonardo da
Vinci aveva forgiato in forma di cranio di cavallo, lo incantò in un
coma premonitore, ed egli vagava per il nero labirinto. E pari alla
luce che s'alterna alla tenebra e la notte al giorno, e sono
inseparabili, egli cedeva all'altra immagine a lui unita ed opposta,
siccome un riflesso.
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